Come rondine in cielo
Memorie di un pilota triestino del 4°Stormo
Ho scritto questi appunti per accontentare
un mio caro amico medico e scrittore dopo insistenze durate parecchi anni.
La causa del mio rifiuto è dovuta
alla mia labile memoria che mi avrebbe fatto dimenticare tanti sublimi
olocausti ed epiche gesta compiute da tanti eroi.
Chiedo quindi perdono alle loro anime
e scusa ai pochi sopravvissuti se mi sono deciso a raccontare soltanto
alcuni fatti inerenti la mia persona.
Gen. S.A. Aldo GON
A Trieste prima dell'arruolamento
Quando il mio amico Alfredo ebbe finito
il periodo di servizio militare quale sottotenente di complemento in Fanteria,
rientrato a Trieste mi disse: “ti te anderà in Aviazion” e “ti te
xe mato nela testa” risposi. Ha impiegato molto tempo e molte parole per
esaltare gli aviatori che aveva avuto modo di conoscere a Gorizia, prima
di convincermi ad andare con lui all'idroscalo per consultare, se lo avessimo
trovato, un bando di concorso per Allievi Ufficiali Piloti.
Ero restio a farmi persuadere perché
desideravo fare il servizio militare negli Alpini in quanto mi piaceva
molto la montagna. Avevo avuto la fortuna di andare in roccia con l'insuperabile
Comici che aveva qualche anno più di noi che formavamo un piccolo
gruppo di appassionati a cui regalava la sua grande esperienza.
Era facile raggiungere la Val Rosandra
a piedi o in bicicletta perché dista solo 5/6 chilometri dal centro
di Trieste. Quando Comici decise di associarsi al C.A.I. rimanemmo senza
la nostra guida e dopo alcune sfortunate arrampicate, che ci costarono
la perdita di due amici, decidemmo di smettere, ma non abbandonammo la
montagna.
L'organizzazione dei giovani fascisti
ci dava la possibilità di praticare tra gli altri gli sport invernali
e addirittura il conseguimento del brevetto di pilota di aeroplano (primo
grado).
Scelsi lo sci e feci bene perché,
oltre a piacermi molto, mi diede l'opportunità di essere richiesto
da molti dopolavori rionali per partecipare alle varie gare cittadine,
provinciali e nazionali. Tutto ciò mi procurò il vantaggio
di essere ben visto dalle ragazze (le nostre mule) durante le feste da
ballo che si svolgevano tutte le settimane ed anche lo svantaggio di frequentare
poco la scuola. Altro vantaggio rappresentava il fatto che ci sentivamo
tronfi quando la gente per strada ci guardava come oggi si guarderebbero
gli astronauti dato che marciavamo con gli sci in spalla.
Alfredo, visto il bando di concorso per
l'ammissione ai corsi della Regia Accademia Aeronautica, si infervorò
e riprese ad insistere per farmi fare domanda; al mio netto rifiuto dovette
ripiegare e chiedere un bando per Allievi Ufficiali Piloti che io avrei
accettato perché gli volevo molto bene. A rattristarlo fu proprio
tale bando perché si riferiva a corsi per Sottufficiali ed io avevo
superato l'età massima per poterli frequentare.
Non ne parlammo più ma dopo qualche
mese, mentre mi trovavo nella mia stanza a studiare, venne da me mia sorella
e preoccupatissima mi chiese cosa avevo fatto di male dato che alla porta
c'erano due carabinieri che volevano parlarmi. Devo ammettere che un po'
discolo lo ero, ma non avevo mai commesso un reato contro la legge; sì,
andavo poco a scuola, mi piaceva la compagnia delle ragazze, i balli e
le gite in montagna mi toglievano il tempo di studiare, tuttavia me la
cavavo bene. A quei tempi si potevano dare tutti gli esami a ottobre per
assenze all'Istituto Industriale ed io per cinque anni ho dato gli esami
a fine estate.
Durante le vacanze estive mi davo molto
da fare: mi alzavo molto presto per andare al mare a fare una nuotatina
e ritornavo a casa a studiare. All'ultimo anno dovevo rispettare un rigido
orario: dovevo essere a casa per le nove e presentarmi alla finestra per
dimostrare alla ragazza di turno che ero presente. Abitava quasi di fronte
al mio palazzo e mi controllava ogni due ore, se mi accadeva di essere
assente al suo controllo non usciva con me alla sera.
Era una bellissima ragazza friulana di
un anno o due più di me, mantenuta da un “vecchio” di quarant'anni!
Mi aiutò molto e forse devo a lei se superai gli esami positivamente.
Morì di TBC mentre ero lontano dalla mia città.
I carabinieri comunque non erano venuti
a cercarmi per una mia malefatta; volevano soltanto informazioni sul conto
mio e della mia famiglia per una domanda che avevo inoltrato e non vollero
precisarmi di quale argomento si trattasse né a chi fosse stata
inoltrata.
Lo seppi poco tempo dopo quando ricevetti
l'avviso di presentarmi all'Istituto Medico Legale che a quel tempo si
trovava a Firenze. Evidentemente la domanda per frequentare il corso di
pilotaggio l'aveva spedita Alfredo a mia insaputa e firmando per me.
La visita si svolse un po' irregolarmente
e superficialmente al contrario di quelle successive in altri istituti,
dove ho sempre dovuto lottare per essere dichiarato idoneo.
Consapevole di essere leggermente astigmatico
avevo corrotto, con poche lire, un infermiere che mi aveva copiato la caratteristica
tabella piena di lettere di diversa grandezza che gli oculisti fanno leggere
ai pazienti per le visite superficiali. La imparai a memoria e tutto andò
per il meglio. Meno buono si rivelò il fatto che mi consegnarano
il foglio di viaggio per presentarmi immediatamente a Parma, concentramento
di tutti gli Allievi. Non avevo con me gli indumenti utili per ventiquattr'ore,
così partii per Trieste al fine di provvedere al bagaglio necessario
e per salutare i miei familiari.
Alla scuola di volo
Appena arrivato a Parma ebbi subito una
sensazione di contentezza; trovai un centinaio di ragazzi briosi e felici
malgrado la sistemazione di emergenza in una caserma dell'aeroporto. Non
trovai subito un posto per sistemarmi ma due miei compagni di scuola, arrivati
qualche giorno prima, collocarono una branda vicino ai loro letti sotto
una grande finestra.
Il comandante dell'aeroporto è
stato molto severo con noi: ci diceva sempre che prima di essere Ufficiali
Piloti dovevamo essere dei veri uomini. Proveniva dalla cavalleria e tutte
le mattine, dopo aver fatto una bella cavalcata, ci beava con le sue esibizioni
acrobatiche su un G 8 facendoci dimenticare le nostre delusioni per non
avere ancora visto gli aerei su cui avremmo dovuto volare; erano nascosti
in grandi hangar che erano serviti per ospitare i dirigibili al tempo della
prima Grande Guerra. Passammo tutto il mese di settembre a fare istruzione
militare con grandi marce, a frequentare lezioni teoriche, a consumare
il rancio con le gavette facendo la coda insieme agli avieri di leva anche
sotto la pioggia.
A fine mese mi fu concesso di tornare
a Trieste per sostenere gli esami. Non avevo ancora visto un aeroplano
da vicino ma sul petto della mia bella divisa da Allievo avevo puntato
l'aquila da pilota (senza averne diritto); volevo far colpo sulla mia ex
professoressa di francese che non mi vedeva da tre anni ma che si ricordava
bene di me; quando mi vide, con un sorriso angelico ed alzando le braccia
al cielo, esclamò: “Cielo, tutto avrei pensato, ma che gli asini
volassero proprio no”. Mi abbracciò e mi rese felice. Era una bella
donna, attraente, sulla cinquantina, con una chioma rossa tiziano che faceva
voltare la testa a tutti gli uomini che incontrava; le sue maggiori doti
erano la bontà, la psicologia e la spiritosaggine. Diventammo amici
più tardi, quando alla fine di una riunione di compagni di scuola,
l'organizzatore ci disse di andare il giorno seguente a trovare la “baba
di francese” che stava poco bene.
Andammo in nove e lei ricevette i primi
otto con un: “grazie caro” ma quando arrivai io mi abbracciò ed
esclamò: “caro il mio...” e pronunciò il mio nome.
Da quel giorno le visite si fecero settimanali
e se ritardavamo, arrivava la letterina di rimprovero per me e mia moglie,
dato che anche lei si era affezionata a questa ormai vecchia signora.
Abitava a Trieste ma svernava a “Gorizia
la Santa” ed un giorno, recatomi in quella città per servizio e
quindi indossando l'uniforme, andai a farle visita e la invitai a fare
una passeggiata. E noto che Gorizia sia sede di molti raduni di ex combattenti
ed i cortei si susseguono abbastanza frequentemente. Quel giorno sono stato
testimone di un episodio degno di De Amicis: accettato l'invito, e dopo
essersi sistemata la immancabile strisciolina di velluto intorno al collo,
uscimmo. Nel corso della città incontrammo uno dei tanti cortei
con gagliardetti e bandiere e lei mi si strinse tanto forte che la sentii
vibrare come una corda di violino tanto era grande la sua commozione scaturita
dal suo alto senso patriottico. Devo dire che tale sentimento imperava
nella maggior parte delle donne triestine.
L'essermi presentato alla commissione
di esami indossando la divisa da aviatore mi ha sicuramente giovato; ho
trovato negli esaminatori tanta disponibilità e molta benevolenza.
Sono diventato perito industriale. Rallegrato e felice mi sono sentito
tanto leggero che avrei potuto volare anche senza areoplano.
Giunto a Parma trovai il gruppo di allievi
molto sfoltito; la maggior parte era partita per altre sedi di scuole di
pilotaggio e con loro, altri provenienti da altri centri di reclutamento.
I miei compagni di scuola avevano deciso anche per me di rimanere a Parma
nella speranza di incominciare subito a volare e diventare piloti prima
degli altri. Erano già state formate cinque squadre di sette allievi
e avevano effettuato alcuni voli prima del mio arrivo.
Il giorno seguente iniziai a volare anch'io:
è stato meraviglioso! Indossato il paracadute ed il grosso casco
di sughero rivestito di pelle seguii, con tutta la mia attenzione i suggerimenti
del mio istruttore che insistette molto di stare leggero sui comandi. Salii
sul veivolo AS I aprendo una piccola portiera come quella di una spider
e attesi in ansia il mio battesimo del volo.
Dopo alcuni metri di rullaggio decollammo
ed io mi sentii una rondine con i polmoni insufficienti a contenere l'aria
che respiravo, tanta era l'emozione. Intanto l'istruttore durante il giro
di campo mi indicava i punti di riferimento e la quota che avrei dovuto
mantenere per un buon avvicinamento al campo di atterraggio. Non ho mai
toccato i comandi. Finito di volare, l'istruttore radunò la squadra
e dopo essersi lamentato del comportamento in volo degli altri disse che
l'unico a diventare cacciatore sarei stato io.
L'affermazione mi meravigliò e
mi rese perplesso; stare leggero sui comandi è una cosa ma non toccarli
affatto è un'altra e lui avrebbe dovuto accorgersene.
Nelle altre squadre regnava il buon umore
e, finito il volo gli allievi andavano al bar con gli istruttori; il nostro,
sempre accigliato, se ne andava senza salutarci.
Il giorno seguente non toccai i comandi
e alla fine del volo mi rivolse ancora i suoi complimenti e così,
dato il mio carattere un po' fatalista, continuai a non toccarli per tutti
i voli successivi e mi limitai a seguire attentamente le manovre che faceva
specialmente in atterraggio.
Al compimento delle due ore e quaranta
minuti di volo, mi accompagnò dal comandante della scuola per dirgli
che ero pronto per il decollo. Il comandante era un capitano piuttosto
vecchiotto per i gradi che rivestiva e non sapemmo la sua provenienza mentre
eravamo a conoscenza di quella del nostro istruttore: aveva partecipato
alla guerra 1915-18 con il grado di sergente pilota e fu richiamato in
servizio col grado di sottotenente dopo essere stato a casa diverso tempo.
Per fortuna il capitano, sentito le ore
di volo che aveva effettuato (o che avrei dovuto aver fatto), disse che
era troppo presto per farmi decollare e prima di provare se ero pronto
avrei dovuto raggiungere almeno le quattro ore di doppio comando. A questo
punto decisi di non toccare i comandi durante il giro di campo dato che
mi sembrava tanto facile, e di prenderli prima dell'ultima virata necessaria
per l'allineamento al campo e successivo atterraggio. Successe un finimondo!
L'istruttore cominciò a tirare delle scarpate alla pedaliera, a
effettuare delle brusche ed orribili virate in cabrata ed in picchiata
e il tutto a quota bassissima.
E stata una delle più grosse paure
che ho avuto in tanti anni di volo effettuate con una trentina di aerei
diversi.
Alla fine del volo mi aggredì gridandomi
che ero come e peggio degli altri e che volevo ammazzarlo. Non mi restava
che presentarmi al capitano e spiegare quello che stava accadendo in seno
alla nostra squadra. Mi ascoltò con molta calma e quando ebbi finito
di esprimere le nostre preoccupazioni mi disse che dovevamo stare tranquilli
per la nostra sicurezza, che era un bravo pilota, buono, che dovevamo comprenderlo
perché stava passando un periodo di non buona salute. Anche altri
istruttori ci dissero le stesse cose ma subito dopo la guerra fu congedato
perché affetto da manie di persecuzione.
Continuammo a volare con discreta fiducia
nei suoi confronti ma prima del mio esame col capitano, due allievi di
altre squadre decollarono.
Per il primo dei decolli ci eravamo schierati
tutti al limite della linea di partenza e al momento perfetto dell'atterraggio
esplodemmo in un grande applauso. Non sono mai stato invidioso ma in quel
momento mi pervase un po' di rammarico; mi ero illuso di poter essere il
primo dopo la proposta fatta dal mio istruttore al capitano.
Dopo i due atterraggi compiuti con il
Comandante fui abile per il decollo; appresi la notizia con molta serenità
ma non vedevo l'ora di tirare manetta e involarmi. Se il primo volo con
l'istruttore era stato magnifico, questo fu straordinariamente incantevole.
Il fatto di essere da solo in volo mi consentiva di guidare a piacer mio,
sbattendo leggermente le ali; picchiare o cabrare mi fecero sentire padrone
del mondo e godere delle piccole sollecitazioni che il cambiamento di assetto
dell' aereo mi procurava. Sorvolai i punti di riferimento con molta attenzione
e l'atterraggio mi riuscì discretamente ed in modo del tutto naturale.
Purtroppo la scelta dei miei compagni
di rimanere a Parma non fu felice. Prima della fine di ottobre iniziarono
ad alzarsi le fitte e odiate nebbie che ci impedivano di volare per conseguire
il brevetto di 1° grado. Durante il mese di novembre effettuammo rari
voli ed arrivammo alla data del 10 Dicembre, giorno in cui si festeggia
la Madonna di Loreto, nostra Patrona, quando un aereo di una piccola pattuglia
di tre velivoli perse un'ala in volo. Il pilota si salvò lanciandosi
con il paracadute, i voli furono sospesi e gli AS 1 furono ritirati. I
giorni di attesa del nuovo velivolo furono tantissimi e tristi; ci fu assegnato
appena in maggio e mentre noi iniziavamo i primi doppiocomando sul CA 100,
gli altri, che erano stati smistati al Centro e al Sud, conseguivano anche
il Brevetto Militare e con la promozione a Sottotenente raggiungevano i
reparti operativi lasciando il posto a noi che dovevamo ancora essere qualificati
piloti di 1° grado. Io ed un mio amico, trasferiti a Foligno ottenemmo
tale qualifica in brevissimo tempo.
L'arrivo a Grottaglie, per ottenere il
Brevetto Militare, non fu gradevole per me; prima di me era giunto un biglietto
di punizione a causa della mia impulsività verso un superiore. Il
dispiacere fu ripagato dal grande piacere di volare con un aeroplano vero.
Il passaggio sul Breda 25 fu velocissimo
e fui il primo a iniziare il doppiocomando sul CR20 perché gli allievi
arrivati in precedenza non gradirono tale assegnazione a causa di alcuni
incidenti di volo e preferirono volare su altri tipi di aeroplani.
Ho avuto la fortuna di avere un bravissimo
istruttore che mi fece decollare sul CR ASSO dopo pochi voli. Mi sentivo
l'aeroplano addosso come un vestito di ottima fattura. In una normale esercitazione
di abilitazione mi allontanai dal campo, preso dalla voglia matta di tentare
qualche figura acrobatica, sicuro di non essere visto.
Le figure che effettuai non furono delle
migliori ed il mio amico aeroplano me lo fece capire alla sua maniera;
mi sballottava da tutte le parti, mi sollecitava pressandomi sul seggiolino
e facendomi stare appeso alle cinghie di sicurezza a seconda della forza
centrifuga o centripeta causate dai miei sconsiderati comandi che gli trasmettevo.
L'inconveniente più antipatico era dato dagli spruzzi di carburante
che entravano in cabina quando tentavo di eseguire dei rovesciamenti e
sbagliandoli gli facevo perdere l'assetto che più gradiva. Evidentemente
non piaceva neanche a me sentire il cattivo odore che emanava quel carburante
composto da una miscela di benzina e olio di ricino.
Da terra il capo della linea di volo,
un maggiore decorato di M.A.V.M. nella Grande Guerra, aveva seguito tutte
le mie stramberie in acrobazia. Mi redarguì bonariamente ma mi inflisse
anche una punizione per indisciplina in volo. La stessa sorte toccò
anche al mio amico che era venuto insieme a me a Foligno.
Raggiunta l'abilitazione sul CR ASSO avrei
dovuto essere in possesso del Brevetto Militare ma una nuova disposizione
giunta dal Comando delle Scuole di Volo stabiliva che gli allievi dovevano
effettuare anche volo acrobatico su un aereo costruito specificatamente
per tale attività: il Breda 28.
La notizia mi fece tanto piacere e mi
diede la possibilità di gustare l'acrobazia vera. Un giovane tenente
mi portò in volo e dipinse nel cielo perfetti looping, tonneau,
imperiali e volo rovescio senza farmi subire tanto le sollecitazioni che
avevo subito col CR ASSO.
Diventai Pilota Militare e fui mandato
in licenza in attesa di nomina e assegnazione al reparto per il quale si
potevano scegliere tre sedi. Chiesi Gorizia-Udine-Gorizia e la mia scelta
fu giudicata con senso umoristico dal Comandante della Scuola che mi rivolse
anche qualche frase di elogio.
La nuova disposizione per l'effettuazione
del volo acrobatico oltre ad avermi dato la gioia di gustare tale volo,
mi procurò l'inconveniente di dover fare due lunghi e noiosi viaggi
in treno: Trieste-Grottaglie e ritorno.
Per un errore dell'Ufficio Operazioni,
forse perché ero stato il primo a metterla in atto, dovetti rientrare
alla Scuola per effettuare 20 minuti di volo acrobatico da solista e, come
se non bastasse, quando giunsi a Grottaglie ebbi una brutta sorpresa; il
tempo si era guastato con nubi sotto i mille metri, quota minima per la
prova che dovevo sostenere.
E stata una delle poche volte che non
avevo avuto fortuna, tuttavia la Dea bendata venne in mio aiuto! Il capo
della linea di volo ed il giovane tenente che mi aveva portato in volo,
anche se a stento, riuscirono a convincere il Comandante della Scuola che
ero in grado di cavarmela anche con le condizioni meteorologiche avverse.
Mi raccomandarono di iniziare la picchiata
necessaria per raggiungere la velocità utile per fare i looping,
a pelo delle nubi e dopo la cabrata di non toccare più i comandi
entrando nelle nubi perché l'impostazione era sufficiente per terminare
la manovra. Per i tonneau non ci sarebbero stati problemi ma non dovevo
eseguire gli imperiali. Il volo mi riuscì bene e provocò
saluti molto cordiali e auguri fraterni.
Durante la mia sosta a Grottaglie arrivò
a casa la mia nomina a Sottotenente Pilota di Complemento e, anche se non
entusiasti della strada che avevo intrapreso, i miei genitori si sentirono
soddisfatti del secondo traguardo raggiunto dal loro piuttosto discolo
figlio che aveva procurato loro alcuni problemi precedentemente.
Ero ancora a Trieste il 4 novembre, festa
della Vittoria e su invito del mio grande amico Alfredo indossai l'alta
uniforme e ci recammo in Piazza Unità d'Italia dove incontrammo
due signorine molto carine. Era stato certamente lui a fissare l'appuntamento
perché le ragazze, che aveva conosciuto a Gorizia, si lamentarono
scherzosamente del nostro ritardo. Rimasi colpito dalla bellezza della
più giovane ma ciò che mi affascinò di più
fu la sua dolcezza che ebbi modo di constatare in seguito e fu forse questa
che fece scaturire in me quel “cosiddetto” colpo di fulmine tanto citato
nei romanzi a sfondo rosa.
Finalmente al 4°Stormo di Gorizia
Dopo pochi giorni arrivò la mia
destinazione al glorioso 4° Stormo C.T. Francesco Baracca con sede
a Gorizia. Non so esprimere la mia grande gioia nell'apprendere la notizia,
tant'è vero che non riuscii a prendere sonno tutta la notte. Mi
alzai molto presto al mattino e, preso il bagaglio pronto da vari giorni,
raggiunsi la sede tanto desiderata che mi regalò tanti giorni di
felicità.
Quando arrivai in aeroporto, ricevuto
da colleghi e superiori, ebbi subito l'impressione di essere entrato in
un ambiente meraviglioso.
La piccola cerimonia del mio giuramento
si svolse in maniera molto semplice, non come mi sarei aspettato. Al corso
ci avevano raccomandato di addestrarci a sfoderare energicamente la sciabola
in modo da afferrarla in volo per la lama e porgere l'elsa al Comandante;
niente di tutto questo! Il colonnello mi disse bonariamente di posarla
sulla scrivania con l'elsa rivolta verso di lui perché le acrobazie
si dovevano fare in volo e non in ufficio. Lessi il giuramento in presenza
di altri ufficiali, salutai la Bandiera con un perfetto “attenti” battendo
quei tacchi che avevo martoriato per imparare a farli risuonare e diventai
dello Stormo.
La bevuta al circolo mi costò quasi
lo stipendio ma erano soldi ben spesi. Gli ufficiali che non avevo conosciuto
alla mattina vennero a presentarsi e a darmi il benvenuto.
Avevo passato una giornata piena di emozioni
e appena giunto in albergo mi addormentai profondamente. Il giorno seguente
fui assegnato alla Squadriglia e pensai di iniziare l'attività in
seno a questa: non era vero! Venni aggregato al Nucleo Addestramento
dei nuovi arrivati comandato da un mio pari grado ma con maggiore anzianità
e tanta esperienza e bravura (Vittorio Pezze'). Dedicava tutta la giornata
al volo; ci faceva andare in aeroporto in bicicletta perché gli
autobus partivano più tardi e noi dovevamo smettere l'attività
prima dell'apertura dei voli; quando noi arrivavamo lui era già
in linea per aiutare gli specialisti a scaldare i motori degli apparecchi.
Al termine del lavoro svolto per noi andava in Squadriglia e portava in
volo i suoi compagni per la normale attività ed alla chiusura dei
voli continuava ad essere per aria molto frequentemente per l'addestramento
della Pattuglia Acrobatica Nazionale. Molto spesso assumeva il Comando
Interinale della Squadriglia per sostituire i capitani che partivano per
la Spagna. Era stato promosso in S.P.E. per meriti straordinari e se lo
meritava davvero!
A fine lavori quasi tutti rimanevano in
aeroporto per assistere alle evoluzioni della Pattuglia Acrobatica e in
cuor nostro albergava la speranza di potervi appartenere un giorno. Ho
scritto quasi tutti perché l'aeroporto ospitava anche un gruppo
Caccia di un altro Stormo (6° Stormo) ed un gruppo da ricognizione.
Il mio capogruppo addestramento era un
uomo con il volo nel sangue; solista, gregario e capo pattuglia ineguagliabile,
possedeva una comunicativa che ci permetteva di seguire le sue istruzioni
vantaggiosamente. Il nucleo aveva in dotazione i CR ASSO e da lui appresi
a fare i rovesciamenti senza dover subire la doccia di carburante come
mi era successo a Grottaglie, via via tutte le figure acrobatiche tradizionali
ed infine la posizione di gregario in volo normale ed acrobatico.
La conoscenza con il CR 32 che ho trovato
in Squadriglia è stata ancora più entusiasmante di quella
con il CR ASSO; per me è stato il migliore aereo dei 33 tipi che
ho avuto il piacere di pilotare e quello che mi ha dato le migliori soddisfazioni.
In Squadriglia si dovevano espletare anche
altre mansioni; a quei tempi l'organico era quasi come quello di uno Stormo
odierno: una dozzina di aerei, altrettanti piloti, ufficio operazioni,
quello del personale, materiale speciale, ordinario, contabilità,
ecc. Il Comandante di Squadriglia, un gentiluomo veneziano (Marco Minio
Paluello), pur essendo molto estroverso era molto meticoloso e altrettanto
disciplinato e corretto e, logicamente pretendeva dai suoi subalterni un
comportamento adeguato. Mi deve aver preso in simpatia perché mi
fece dirigere tutti gli ufficiali a turno e mi seguì in queste funzioni
fino al suo trasferimento. Gli devo riconoscenza perché mi ha insegnato
molto anche se ho preso da lui forse anche troppo di quel senso autoritario
che accoppiato al mio carattere impetuoso mi ha procurato non poche “grane”.
Non sono un fanatico ma quel più
che cameratismo che regnava in Squadriglia e in tutto il reparto, rendeva
il lavoro un piacere anche per gli specialisti che avevano la nostra stima
e benevolenza. Coloro che arrivavano e non si adeguavano all'ambiente se
ne andavano spontaneamente o venivano trasferiti d'autorità alla
prima richiesta di personale.
Tanto cameratismo ma altrettanta rivalità
esisteva tra le Squadriglie, non tanto per l'addestramento bellico che
consisteva soprattutto in finte caccie e poche esercitazioni a fuoco, ma
perché il poligono ci toglieva ore di volo per le evoluzioni acrobatiche
in quanto, con le sanzioni imposte dalla SDN (Societa' Delle Nazioni),
avevamo il carburante razionato.
Bei tempi! Ma un cruccio mi teneva in
ansia: la vita che conducevo assieme a quegli uomini meravigliosi era per
me un paradiso. Ogni tre mesi presentavo domanda di rafferma nella speranza
di partire per la Spagna dove era possibile ottenere una promozione in
S.P.E. per merito di guerra; la partenza ritardava causa il parere contrario
del Comandante dello Stormo alle domande che inoltravo.
Il tempo passava, i comandanti di Squadriglia
partivano per la Spagna e in tal maniera diventai comandante interinale
come lo diventò il mio amico che fu con me dall'inizio del corso
fino all'assegnazione dello Stormo. Le Squadriglie, grazie all'abilità
dei sottufficiali rientrati dopo aver preso parte all'Aviazione Legionaria
in O.M.S. e malgrado il comando di giovanotti come noi, funzionavano a
dovere; il colonnello ci diceva che eravamo bravi e che non ci mandava
via perché avrebbe inoltrato le proposte per il passaggio in S.P.E.
per meriti straordinari.
E stato merito del mio Comandante di Gruppo
(Aldo Remondino), uomo e pilota fuori dal comune, se riuscimmo a partire
convincendo il suo capo di concederci il benestare.
La destinazione a Gorizia mi offerse un'altra
opportunità: dopo due o tre giorni dal mio arrivo incontrai le due
ragazze che avevo conosciuto a Trieste e da quel momento mi pervase tanto
la voglia di vederle che rinunciai a stare assieme ai miei compagni, tanto
sarei stato con loro dopo cena.
Gli incontri e le passeggiate si susseguirono
regolarmente e mi accorsi che la più giovane non disdegnava la mia
compagnia e forse nutriva nei miei confronti lo stesso sentimento che io
nutrivo per lei. Tale fatto mi incoraggiò a chiederle di uscire
da sola. Gorizia è una piccola città e oltre a noi aviatori
ospitava diversi reparti dell'Esercito e tra noi e la gente locale, durante
l'ora della passeggiata prima di cena, affollavamo il corso della cittadina.
Mentre i capitani dovevano chiedere il
permesso giornaliero di uscire in abiti borghesi, noi subalterni non avevamo
questa possibilità; dovevamo indossare sempre l'uniforme con il
colletto della camicia inamidato che dava abbastanza fastidio, ma quello
che disturbava di più era il fatto che ogni tre o quattro metri
dovevamo salutare i superiori o rispondere al saluto degli inferiori. Con
tale scusa chiesi alla ragazza di trovarci fuori dal centro della città
e lei accettò di buon grado. Naturalmente sceglievo itinerari poco
frequentati e, possibilmente poco illuminati, anche per indossare abiti
borghesi.
Dal primo timido bacetto passammo rapidamente
a quelli veri che svilupparono presto un reciproco e profondo amore che
portò al nostro fidanzamento.
Ero diventato un vero Fregoli perché
dopo aver accompagnato la mia ragazza a casa dovevo correre nella cameretta
che nel frattempo avevo affittato, per indossare l'uniforme e raggiungere
i miei colleghi al ristorante. Gli aeroporti non erano ancora attrezzati
per alloggiare gli ufficiali, la mensa ed il circolo funzionavano ma alcuni
di noi preferivano cenare in città per non sottostare agli orari
degli autobus, per stare in compagnia e parlare tanto di volo ed essere
pronti per altri appuntamenti onde praticare quella attività che
la giovane età imponeva.
La partecipazione a tavola e al bar a
queste riunioni alimentava il nostro affiatamento già forte e sincero
fino a farlo diventare amicizia vera, tale da farci soffrire tanto per
le abbastanza frequenti e dolorose perdite in incidenti di volo, causati
da indisciplina di volo.
Talvolta la disciplina lasciava il posto
alla gogliardia tanto che alcuni dei partenti per la Spagna, dopo il saluto
ufficiale al Comandante della Divisone Aquila, S.A.R. il Duca d'Aosta,
venivano buttati in piscina completamente vestiti e con sciarpa e sciabola.
Tale trattamento non mi fu usato forse
perché il bagno in piscina lo avevo già fatto volontariamente.
Ero in servizio di picchetto e avevo dato l'ordine di svuotare la piscina
per il cambio dell'acqua. La vasca era riservata agli ufficiali e alcuni
avieri mi chiesero di poter approfittare dell'occasione per fare un bagno
prima dello svuotamento. Mi presi la responsabilità di consentire
e arrivarono in parecchi, alcuni già in costume da bagno e altri
vestiti. Ci fu allegria perché i nuotatori iniziarono a buttare
in acqua quelli vestiti, alcuni dei quali per non subire il trattamento
dicevano di non saper nuotare, ma una volta in acqua dimostravano il contrario
e accettavano con allegria lo scherzo. Uno di questi però, quando
lo acchiapparono, incominciò a gridare a squarciagola di non saper
nuotare, cercando di svincolarsi inutilmente: non fu creduto e fra i tanti
commisi quell'errore anch'io. Era un aiuto cuoco e pensavo che fosse conosciuto
e lasciai fare. Una volta in acqua incominciò ad annaspare e mi
preoccupai, ma gli avieri mi dissero che era un simpatico burlone e dava
sfogo alla sua allegria. Ad un certo punto in mezzo a tanta confusione,
mi accorsi che stava annegando e mi tuffai precipitosamente.
E stata una lotta: l'uniforme e la sciarpa
azzurra e soprattutto lui, che voleva aggrapparsi a me, mi misero in difficoltà.
In qualche modo riuscii a portarlo vicino al bordo della piscina dove fu
recuperato dai suoi compagni che avevano detto che era un burlone; dopo
pochi secondi, smaltito lo choc, si mise a ridere assieme a tutti gli altri.
Mentre stavo mandando in caserma tutti
per fare iniziare lo svuotamento arrivò il Capitano d'Ispezione
e non pretese un rapporto scritto ma volle sapere tutto nei minimi particolari;
alla fine disse che aveva il dovere di prendere due provvedimenti: punirmi
ed inoltrare una proposta di encomio. Scontai la punizione ma dell'encomio
non seppi mai nulla.
La partenza per la Spagna
Il saluto degli amici quando arrivò
l'ordine della mia partenza per la Spagna avvenne in un clima molto affettuoso
e quando espressi il pensiero di dover noleggiare un automezzo per il trasporto
del mio grosso baule, uno dei miei colleghi si offrì spontaneamente
dicendomi: “Ti porto io con la mia leona” ; si trattava di una vecchia
e robusta Ford. La sua robustezza la dimostrò all'uscita dell'aeroporto
che senza le segnalazioni del moviere era pericolosa a causa di una grossa
siepe che toglieva la visibilità per l'immissione sulla strada statale;
difatti fummo investiti da un'auto. Non riportammo gravi danni, soltanto
delle piccole ammaccature.
A Trieste i saluti furono più complicati
e faticosi per le visite a parenti ed amici e conseguenti libagioni in
special modo quelle preparate dagli amici alla stazione. I treni avevano
ancora la terza classe e la prima, che costava abbastanza era poco utilizzata,
per cui trovai uno scompartimento tutto per me. Il viaggio era lungo, ero
stanco, la testa mi girava per le troppe libagioni e l'esperienza fatta
in viaggi precedenti mi suggerì di infilare il pigiama e mettermi
a dormire. Nei pressi di Mestre fui svegliato da un grosso colpo alla testa;
il mio vagone aveva deragliato ed ero uscito dal finestrino con l'aiuto
di un ferroviere che mi disse che circa due chilometri più avanti
avrei trovato un altro treno per proseguire. In pigiama e pantofole e con
tutto il bagaglio feci il non comodo percorso lungo la linea ferroviaria
e, ritrovato un altro scompartimento vuoto, ripresi a dormire.
Al Comando Tappa di Genova mi consegnarono
un foglio con tutte le informazioni necessarie e due ordini drastici: non
portare soldi a bordo e non parlare con nessuno; obbedii e inviai i soldi
a casa fino all'ultimo centesimo. Sulla nave c'erano dei normali viaggiatori
ma notai anche dei giovanotti che come me tenevano un comportamento riservato;
supposi che viaggiassero per raggiungere la mia stessa meta ma non mi azzardai
ad avvicinarli.
Una volta fuori dalle acque territoriali
un marinaio girava e diceva che al bar si potevano comprare sigarette.
Ero completamente al verde e mi presentai al comandante della nave spiegandogli
la mia situazione. Era un mio concittadino e mi disse che ero un ingenuo
e che i soldi me li avrebbe prestati lui perché, aggiunse, a Siviglia
me ne avrebbero dati in buona quantità e infine volle offrirmi un
caffè. Al bar mi indicò un gruppetto di ragazzi che avevo
notato all'inizio del viaggio dicendomi che lo scopo del loro viaggio era
uguale al mio. Li avvicinai e da uno di loro seppi la ragione del divieto
di portare soldi a bordo: si trattava di un provvedimento generico inteso
ad impedire esportazione di valuta.
Qualcuno doveva averlo fatto in precedenza
perché durante lo scalo a Ceuta si potevano comperare delle pesetas
a metà prezzo che in Italia. Nel golfo del Leone trovammo mare forza
sei/sette e a cena mi trovai quasi solo con il Comandante; gli assenti
erano occupati a dare sfogo al mal di mare, alcuni sdraiati in cuccetta,
altri appoggiati alle paratie della nave per mandar fuori bordo. Il capitano
mi disse molto confidenzialmente che avrebbe pouto evitare, in parte, il
mare grosso ma aveva scelto quella rotta per non avere sorprese da parte
di qualche sommergibile di nazioni contrarie al nostro intervento in Spagna.
Sono piuttosto ottimista ma la notizia mi fece balenare in testa un pensierino:
la partenza in auto mi provocò un incidente, quella in treno un
deragliamento e in nave? Per fortuna andò bene.
A Siviglia fummo ricevuti da un ufficiale
che ci accompagnò in ufficio a ritirare una buona somma di denaro
e poi in un lussuoso albergo per sostare alcuni giorni necessari per confezionarci,
su misura, le uniformi della Aviazione Legionaria Italiana.
Passammo delle giornate abbastanza piacevoli;
l'albergo era confortevole, la tavola ottima, il Carlos Primero buono e
le ragazze del night club belle e generose, però l'ansia di raggiungere
il reparto mi perseguitava.
La contingenza dell'Aviazione Legionaria
Italiana era costituita, oltre che alle forze dislocate alle Baleari, da
reparti di Caccia, Bombardamento, Ricognizione e da un nucleo d'assalto.
Cacciatori eravamo soltanto in due e dopo un lunghissimo e noioso viaggio
su un treno sporco e molto lento arrivammo a Saragozza (Zaragoza), sede
del Comando di Stormo, che era formato da tre gruppi: Asso di Bastoni,
Cucaracia, Gamba di Ferro più un Nucleo di mitragliamento. La designazione
all'Asso di Bastoni mi rese felice perché la gran parte del personale
proveniva da Gorizia e Udine, quindi amici. Il Comandante, uomo aristocratico
introdotto nell'alta borghesia spagnola (Andrea Zotti), era stato il leader
della Pattuglia Acrobatica che aveva inserito nel programma la formazione
in volo rovescio che stupì il mondo. Era molto esigente! Prima di
essere assunto il nuovo arrivato doveva superare una prova di abilità
in volo acrobatico e in caso negativo veniva rimandato ad altra destinazione.
Eravamo dislocati su un altopiano in un
paesino con pochissime case, che non offriva distrazioni per cui tutto
il personale rimaneva in campo ventiquattr'ore al giorno; non c'era di
meglio che seguire le prove dei nuovi arrivati ma non mi preoccupai, mi
sentivo in forma e superai brillantemente la prova; divenni uno di loro
dopo la gran bevuta offerta anche agli specialisti che si meriterebbero
un capitolo a parte per descrivere la loro abnegazione e capacità.
Mi limiterò a dire che essendo
in quota abbastanza elevata e in periodo invernale, faceva freddo ed i
motori venivano incappucciati per sistemare le stufe catalitiche e loro
erano costretti, dopo aver liberato gli aerei dai tendoni, a scaldare i
motori ogni due ore.
Il Comandante di Squadriglia mi portò
per la prima volta in volo, assieme ad un altro gregario, per farmi prendere
visione della zona e la dislocazione delle linee del fronte; al rientro
mi dichiarò pronto al combattimento, come dicono gli americani “Combat
Ready” .
Durante la terza missione (2 aprile '38)
dovetti registrare il primo degli incidenti di volo che mi sono capitati:
la perlustrazione che dovevamo fare si stava svolgendo tranquillamente
quando il mio motore incominciò a vibrare e le sollecitazioni sempre
in aumento diventarono insopportabili tanto che decisi di lanciarmi col
paracadute. Non mi lanciai perché con l'ultimo scossone partì
l'elica ed il volo divenne di una tale bellezza che mi fece commettere
un grave errore.
Senza motore dovevo tenere un assetto
di picchiata per mantenere la velocità di sostentamento ma il volo
mi inebriò; mi sentivo un'aquila e con gaudio mi misi ad effettuare
delle virate in picchiata con relativa cabrata ma intanto perdevo quota
e non mi preoccupai di osservare il terreno collinoso per cercare un posto
dove tentare un atterraggio di fortuna. A pochi metri da terra mi resi
conto della superficialità commessa e cercai un posto per mettere
le ruote anche se in ritardo. Trovai una valletta e dopo aver bloccato
i freni iniziai a planare con velocità ridottissima perché
lo spazio era veramente poco e l'atterraggio risultò piuttosto pesante.
Non recai danno al mio CR32 e ciò mi rese ancor più contento
di quanto lo fossi stato dopo aver toccato terra. Mi soccorsero dei militari
italiani ed il loro Comandante mi fece accompagnare al mio Gruppo con una
camionetta.
I due ingegneri recatisi sul posto per
la ricerca delle' cause che provocarono l'incidente constatarono la rottura
del riduttore dell'elica. Si meravigliarono, altresì, di come avevo
potuto atterrare in così breve spazio e vollero venire al Gruppo
per congratularsi con me. Il Comandante dello Stormo (Venceslao D'Aurelio)
che li aveva accompagnati, mentre eravamo tutti a tavola, mi rivolse parole
di elogio e disse che avrebbe inoltrato una proposta per la concessione
di una Medaglia d'Argento al Valor Aeronautico. Naturalmente dovetti offrire
alcune cassette di Carlos Primero per brindare alla notizia. La proposta
si tramutò in un Encomio da iscriversi sulle carte personali.
L'aeroplano fu recuperato dai nostri specialisti
e rimesso in efficienza in brevissimo tempo. Alla spedizione partecipò
anche un mio collega cattivello e forse un po' invidioso che scoprì
che avevo atterrato in poco spazio, ma che avevo toccato prima con le ruote
sulla pendice della collina e poi atterrato, ridimensionando il valore
della mia manovra. Era giusto! Il contatto con la pendice di una collina
aveva ulteriormente ridotto la velocità dell'aereo che avevo già
impostato al limite della velocità di stallo e con un balzo toccò
terra e con i freni si fermò in pochi metri.
Si volava abbastanza spesso ed il nostro
Comandante di Gruppo ci azzeccava quasi sempre, quando al briefing, ci
diceva che durante il volo che dovevamo intraprendere avremmo trovato il
nemico. Compimmo diversi combattimenti con tante vittorie che gloriarono
il Gruppo ma dovemmo subire anche delle dolorose perdite.
Il primo combattimento è stato
quello che mi ha emozionato in maniera particolare: dal calderone (così
chiamavamo la fitta giostra formata dai nostri velivoli e quelli nemici)
si staccò un Curtis (Polikarpov I-15, soprannominato "Curtiss"
per gli italiani, "Chato" per gli spagnoli) e lo inseguii immediatamente;
quando fui a portata di tiro portai le dita sul grilletto delle mitragliatrici
ma non riuscii a sparare. Mi faceva tanta pena quel pilota che non sapeva
difendersi, faceva delle virate troppo dolci per essere in combattimento
e sarebbe stato facile abbatterlo ma non mi decidevo a sparare. Mentre
stavo facendo queste considerazioni mi presi una bella mitragliata da parte
di un suo collega e mi inferocii; sparai e con pochi colpi lo feci precipitare.
Pur essendo in stato morboso di aggressività lo seguii fino a quando
si schiantò al suolo e la mano mi scappò istintivamente sulla
fronte in segno di saluto militare.
Su questo campo ebbi il mio secondo incidente
di volo; ero a capo di una formazione di tre aerei dopo quella del Comandante
di Squadriglia e combinai ancora una fesseria. Si atterrava quasi sempre
in formazione di Squadriglia ed io mi ero portato in ala alla sua pattuglietta,
come consuetudine. Il meraviglioso CR 32 aveva anche un difetto: nell'ultima
fase del planè (a pochi piedi da terra) bisognava portarlo in assetto
di cabrata per smaltire velocità e la posizione comportava lo svantaggio
di non vedere più il terreno di atterraggio.
Tale inconveniente e la necessità
di dover tener d'occhio la pattuglia che mi precedeva, non mi permisero
di vedere una fossa che gli spagnoli avevano scavato per collocare una
mitragliatrice antiaerea. I miei gregari atterrarono regolarmente mentre
io toccai il terreno proprio sui bordi ditale fossa lasciandoci il carrello
e subendo una violenta capottata.
Nell'incidente riportai una ferita alla
testa ed una al ginocchio e fu necessario il mio ricovero all'ospedale
di Saragozza. La degenza all'ospedale militare non fu una calamità;
due crocerossine, appartenenti alla nobilità cittadina, mi tenevano
buona compagnia ed il mio Comandante (Andrea Zotti) mi veniva a trovare
spesso, forse perché aveva sangue blu nelle vene anche lui. Le sue
visite si fecero più frequenti quando potei alzarmi e fare qualche
passeggiata nei dintorni.
In primavera ci trasferimmo in una vasta
pianura nei pressi di Puig Moreno, un paese un po' più grande di
Bellio ma non tale da offrirci qualche svago. Avevamo però la possibilità
di recarci qualche volta a Saragozza anche per smaltire quella energia
fisiologica insita negli uomini in età giovanile. Il campo non era
stato allestito con grandi mezzi ma la sistemazione in baracche ci consentì
di riposare meglio e anche durante il giorno. I combattimenti si susseguirono,
con discreta frequenza e oltre alle tante vittorie, dovemmo subire alcune
perdite.
In quel periodo ci rischierammo momentaneamente
a Teruel per operare su quel fronte e perdemmo il comandante di Squadriglia
(Antonio Raffi). Fu sostituito da un aitante Tenente (cap. Luigi Borgogno)
che con il suo carattere entusiasta e focoso riuscì a sganciarsi
dai bombardieri; purtroppo (Luigi Borgogno) non durò a lungo, fu
abbattutto e la sorte non gli fu benigna, mentre scoprimmo che il precedente
Comandante (Antonio Raffi) era vivo ma prigioniero.
Prima dello spostamento a Teruel arrivò
il maggiore che mi aveva aiutato a partire (Aldo Remondino) e volò
assieme a noi in alcune missioni per far tesoro di quel bagaglio di esperienze
utili prima di assumere l'effettivo comando del Gruppo. Assieme a lui arrivò
anche un capitano, suo compagno di corso, per comandare la Squadriglia.
Qualche tempo dopo il rientro a Puig Moreno ci trasferimmo a Sarinena in
quanto le truppe franchiste continuavano ad avanzare e noi dovevamo spostarci
per essere più vicini alle linee di combattimento.
Intanto con il passare del tempo i colleghi
che da più tempo erano al Gruppo rimpatriavano e diventai uno dei
più anziani e con buona esperienza. Il maggiore, che mi conosceva
sin dai tempi di Gorizia (Aldo Remondino) mi volle permanentemente suo
primo gregario in modo da potermi affidare dei compiti particolari in caso
di necessità. Il caso volle che dopo poche missioni si presentasse
l'occasione di ripagare la fiducia che aveva riposto in me. Durante una
crociera di protezione alle truppe scorsi una pattuglia di cinque Rata
nemici (Polikarpov I-16, soprannominati "Boeing" dagli italiani, "Mosca"
dai repubblicani e "Rata" dai nazionalisti) che puntavano sulla nostra
formazione e con una brusca impennata volsi il muso del mio CR verso di
loro ed ingaggiai un furioso combattimento.
Non riuscii ad ottenere alcuna vittoria
effettiva, anche se il loro velivolo non consentiva virate troppo strette,
ma il merito di averla distolta dall'attaccare la nostra formazione. Mi
sono trovato anche in difficoltà per il numero e la velocità
dei Rata che avevo contro e con una picchiata in candela presi a volare
rasente al suolo zigzagando in tutte le direzioni in modo da impedire a
loro di collimarmi, e spararmi con efficacia.
Non sapevo quale rotta avessi preso e
quando i Rata decisero di sospendere la caccia ripresi quota per osservare
il terreno e trovare qualche punto di riferimento.
Quando si è in volo, la capacità
di ragionamento diminuisce abbastanza sensibilmente specialmente quando
si è soli a bordo ed ecco perché i piani di volo devono essere
preparati minuziosamente. Individuai un aeroporto, la bussola mi segnava
pressappoco ovest, direzione che avrei dovuto mantenere, il carburante
era scarso e decisi di atterrare sicuro di essere in territorio amico.
Era la base di un reparto da ricognizione spagnolo; mi accolsero calorosamente
e potei tracciarmi facilmente la rotta per il rientro che fu salutato con
grandi manate sulle spalle, bevute e scherzi a non finire.
La prigionia
Le giornate passarono in allegria ma anche
in fretta e arrivò l'ordine del mio rientro in Patria. In precedenza
era arrivato al Gruppo un Capitano di complemento richiamato. Era collaudatore
alla Caproni e quindi non esperto cacciatore e deve essere arrivato da
noi con la raccomandazione di Italo Balbo di cui era parente. Aveva compiuto
numerosi voli con un nostro esperto pilota ma non riuscì ad addestrarsi
sufficientemente.
Stavo salutando gli amici quando fui chiamato
dal Comandante di Gruppo (Aldo Remondino) e pensai che volesse salutarmi,
invece mi chiese di portare in volo il nuovo arrivato come secondo gregario.
“Non mi lascia in pace” mi disse “mi tormenta continuamente con preghiere
di portarlo in volo e voglio approfittare di te per accontentarlo e ti
chiedo di aderire in nome della nostra reciproca stima e fiducia”. Accettai
di buon grado, corsi alla baracca, mi tolsi la giacca e cravatta dell'abito
borghese che già indossavo e raggiunsi la linea di volo. Il mio
aereo era già pronto, indossai in fretta il paracadute, e con il
secondo gregario, mi accostai al leader. Già in partenza dimostrò
di non avere attitudine ad essere un buon pilota da caccia; mi si avvicinò
diverse volte pericolosamente ma gli errori più gravi doveva commetterli
più tardi. La formazione che si doveva tenere in volo era quella
di permettere a quasi tutti i piloti di scrutare il territorio nemico e
quindi se questo si trovava sulla sinistra si doveva volare in ala destra,
tranne pochi esperti sulla sinistra per eventuali sorprese dalla parte
amica e viceversa quando il nemico era sulla destra. Devo precisare che
il pilota da caccia usa la pedaliera soltanto in rullaggio e per compiere
figure acrobatiche e le virate le compie con l'ausilio degli alettoni e
della cloche, mentre il bombardiere con l'aereo più pesante non
deve, in linea generale, inclinare eccessivamente l'aereo ed è costretto
ad usare il piede. Ecco perché il mio secondo, usando la pedaliera
perdeva quota ad ogni virata necessaria per la trasformazione da ala ad
ala ed io dovevo aspettarlo per riportarlo in formazione. Gli facevo segno
con la mano quando doveva cambiare la posizione e tutte le volte che mi
passava sotto la fusoliera era un brivido. All'ultima virata per il rientro
non mi passò sotto ma mi investì e con l'elica mi tagliò
letteralmente il terminale della fusoliera e con essa persi anche i piani
di coda e mentre stavo slacciando le cinture di sicurezza fui catapultato
in seguito alla brutta posizione che assunse il velivolo. Senza piani di
coda e con tutto il peso del motore e l'attrezzatura posta nella parte
anteriore, l'aereo assunse immediatamente la posizione perpendicolare al
terreno, che noi chiamiamo scampanata, e fui scaraventato nell'aria. Gli
aerei moderni sono dotati di seggiolini eiettabili provvisti di sistema
di apertura automatica del paracadute. Prima di averli in dotazione, dovevamo
agganciare un moschettone all'aereo che, in caso di lancio, svolgeva una
fune lunga otto metri per azionare l'apertura del paracadute ad una distanza
di sicurezza, inoltre, ai tempi della guerra di Spagna, il paracadute non
era provvisto dei cosciali, ed era necessario stringere forte la cinghia
che cingeva il corpo. Soltanto più tardi, quando un mio collega,
lanciandosi, si è sfilato sfracellandosi al suolo i velivoli sono
stati muniti di cosciali, cinghie che avvolgono le coscie evitando tale
pericolo.
Stavo precipitando e mi accorsi di non
aver agganciato il moschettone; per la premura di salire a bordo causa
l'imminente scadenza dell'orario di decollo non mi strinsi bene la cintura
del paracadute. Lo strappo di apertura fu abbastanza forte e la cinghia
mi si portò sotto le ascelle rompendomi due costole.
Eravamo in territorio nemico ed il Comandante,
lasciando il compito di guidare la formazione verso casa al capo della
seconda pattuglia, si diresse su di me e con passaggi radenti al mio ombrellone
tentò, con la sua scia, di spingermi verso la terra amica. La discesa
discretamente lenta e la quota di lancio abbastanza alta mi consentirono
di studiare il terreno per tentare di oltrepassare le linee. Mi trovavo
non distante dalla verticale del fiume Ebro e a qualche chilometro più
a Sud c'era la città di Tortosa ormai in mano ai falangisti. Questo
sarebbe stato il mio obiettivo: mi sarei nascosto e di notte non mi sarebbe
stato difficile raggiungerla. Mentre scendevo, occupato a scegliere un
itinerario che mi permettesse di seguirlo senza essere intercettato, sbattei
contro la pendice impervia di una collina.
Seppi a fine conflitto che durante il
briefing il mio gregario dichiarò che ero stato io ad investirlo
e fu steso a terra da un pugno in testa infertogli dal nostro capocalotta
che si trovava alle sue spalle. Riavutomi dalla botta, la prima preoccupazione
è stata quella di avvolgere il paracadute e nasconderlo tra i cespugli
e cercare una fessura nella roccia per mettere il portafoglio, l'orologio
e l'anello di fidanzamento. Mi diressi verso un bosco con il passo che
mi consentiva il dolore alle costole e camminai per circa un' ora e mezza.
La mia lenta discesa e l'ampiezza dell'ombrellone
hanno agevolato le ricerche indette per la mia cattura e fui accerchiato
da ragazzi di circa 15-17 anni che sbucando dai cespugli mi gridavano:
“sacca la pistola”; io rispondevo “no tengo la pistola” e con tante intimazioni
temevo che qualcuno volesse fare il Tom Mix e spararmi. Lasciai il mio
rifugio ed uscii allo scoperto dove fui subito aggredito e spogliato del
giubbotto di volo e della camicia; mi lasciarono in pantaloni e canottiera.
Era il 10 ottobre e in mezzo alle montagne doveva fare abbastanza freddo
ma non lo sentii. Quando uno dei ragazzi trovò nella mia giacca
un pacchetto di sigarette xantia mi diede un ceffone perché erano
cose da signorine e l'atto fu l'invito per altri a trattarmi a pugni e
calci.
Soltanto uno si mosse a compassione e
mi porse un foulard di seta che aveva trovato durante la mia ricerca. Era
un fazzoletto con stampato il discorso del Duce del 2 dicembre che mi aveva
regalato il mio Comandante di Squadriglia e per non avere ulteriori dispiaceri
avevo buttato, levandomelo con fatica dal collo causa la quasi immobilità
delle mie braccia strette dal paracadute.
Il tragitto per arrivare a Mora de Ebro
fu tranquillo ma appena giunti e con la strada gremita di curiosi, i ragazzi
si entusiasmarono ed a forza di spintoni mi accompagnarono in un ufficio
dove non fui trattato male, in attesa di essere portato su una grossa auto
al cospetto del colonnello (o generale) Lister. Non fu un interrogatorio;
mi faceva delle domande in lingua spagnola che io capivo pochissimo e alle
quali rispondevo quello che volevo, perché lui non capiva l'italiano.
Alla fine mi chiese:
“Cosa pensano di me dall'altra parte?”.
Non sapevo chi era e quando me lo disse mi venne spontaneo di dirgli pressappoco:
“Quando vi troveranno vi faranno la festa”.
Mi spinse quasi contro la parete e mi fece portar via, tenendosi il mio
foulard.
Mi fece una buona impressione; nel suo
angusto ufficio aveva un piccolo tavolo e tante carte. Non molto alto di
statura, robusto con una testa fulva come quella di un leone sopra un collo
taurino, mi faceva supporre che fosse un uomo energico e risoluto.
L'interrogatorio lo subii più tardi
da un italiano fuoriuscito e antipatico che voleva prendere le sembianze
di Lenin con la barbetta e la testa calva simili a quelle del dittatore
sovietico. Le sue domande non erano di ordine tattico ma politiche e fu
un bello scambio di improperi; anche se la mia posizione era di difficoltà
e la mia preparazione politica piuttosto scarsa, la sua era peggiore della
mia e mi consentì di ribattere con determinazione alle sue ideologie
strampalate. Mi tolsero da quell'impiccio fastidioso quando vennero a chiamarmi
perché il generale mi voleva a cena con lui. Era già seduto
ad un tavolo lungo e stretto e sulle panche sedevano tutti i militari dipendenti.
Accanto a lui un posto vuoto che mi invitò
ad occupare per scambiare quelle poche parole che riuscimmo ad interpretare.
Eravamo ancora a tavola quando arrivò un capitano pilota che doveva
accompagnarmi a Barcellona. Su una grossa macchina c'erano dei militari
armati, non so se per scorta o per approfittare dell'occasione e godere
di una licenza perché durante il viaggio scesero a turni successivi
e rimanemmo soli con l'autista. Prima di salire in macchina, vistomi così
scarsamente vestito, il capitano si tolse il suo cappotto di pelle nera
e me lo fece indossare. La sua affabilità durò per tutto
il viaggio e parlammo come colleghi ed esclusivamente di volo per tutto
il percorso.
Fu un momento di rilassamento ma le costole
continuavano a farmi male. Ci fermammo davanti ad una grande villa che
doveva essere un Comando di Grande Unità perché appena entrati
salutò con molta deferenza un signore che strinse la mano anche
a me scambiandomi per uno di loro dato che indossavo il mio bel cappotto.
Ci recammo dall'ufficiale di servizio per chiedere un posto per il pernottamento
e l'ufficiale, saputo chi ero, disse al capitano di occupare la sua stanza,
tanto era di servizio, ma che io avrei dovuto rimanere lì con lui
per “fare i conti”.
Era un tenente alto, robusto e di bell'aspetto
e incominciò subito a trattarmi male facendomi rimanere in piedi.
“Cosa ti aspetti da me mi disse subito, mi avete ucciso padre, madre, due
sorelle e un fratello; il capitano penserà di trovarti qui domani
ma io non posso non ucciderti” e così dicendo estrasse la pistola
dal fodero e la posò sulla scrivania. “Cosa siete venuti a fare
qui? Dovevate rimanere a casa vostra e la rivoluzione sarebbe finita da
molto tempo” e continuò ad inveire per tutta la notte. Ero stanco,
avvilito, frastornato e dolorante; non avevo neanche la forza di avere
paura.
Le sue parole le sentivo e non le sentivo,
tanta era l'apatia che mi aveva invaso. Se ne deve essere accorto perché
mi fece sedere ma continuò e sempre con gli stessi argomenti. Finalmente
al mattino gli portarono la colazione e lui la porse a me con maniere non
proprio affabili ma nemmeno sprezzanti.
Sarà stato il mio stato psico-fisico,
sarà stato l'essermi immedesimato nel suo stato d'animo per la perdita
dei familiari, ma il suo gesto mi commosse al punto che quando arrivò
il capitano e si salutarono, mi prese l'impulso di abbracciarlo ma il suo
atteggiamento non era invitante e desistii.
Ripreso il viaggio, verso mezzogiorno
il capitano ordinò all'autista di fermarsi in un posto sufficientemente
nascosto e disse che andava in cerca di recuperare qualche cosa da mangiare.
Ritornò presto con tre panini e disse: “Si vede che sei una persona
leale”; nello scendere aveva lasciato la pistola sul sedile della macchina;
ma io che avrei potuto fare? Avrei dovuto ammazzare l'autista a sangue
freddo, e poi, nello stato in cui ero, ignorando il luogo in cui mi trovavo
e la posizione delle linee avrei peggiorato la mia situazione senza ottenere
lo scopo di raggiungere le nostre linee. L'idea mi era balenata in testa
ma la ragione mi sconsigliò di farlo.
L'arrivo a Barcellona causò ancora
un fatto commovente; ma da parte del capitano che mi abbracciò fortemente
lasciando sul mio viso le sue lacrime. Evidentemente sapeva a che cosa
andavo incontro. Infatti, appena partito mi fu chiesto se ero disposto
a rispondere a tutte le domande che mi sarebbero state poste e quando rifiutai,
dicendo che avrei risposto solo a quello che mi sarebbe parso giusto, mi
portarono in una stanza sotterranea buia, senza finestre e completamente
vuota.
Quando sentii il primo stimolo di carattere
fisiologico bussai ripetutamente alla porta ma nessuno mi rispose, e dovetti
arrangiarmi in maniera non molto confortevole. Avevo misurato a passi e
tastoni la stanza che sarà stata lunga tre metri e larga due e,
partendo dalla porta, localizzai il punto più distante da essa dove
scaricai quel poco che avevo nell'intestino. Avevo freddo e non potevo
coricarmi sul pavimento di cemento, difeso soltanto dalla canottiera ed
inoltre il male al costato me lo impediva. Stavo sempre in piedi o sonnecchiavo
seduto. Non avevo cognizione del tempo ma dalla frequenza con cui, attraverso
la finestrella della porta, venivano a chiedermi se avevo cambiato idea,
arguì che i giorni passavano. Avevo le labbra secche, mi pareva
fossero piene di croste e mi ossessionava il pensiero di quanto avrei potuto
sopportare ancora quella condizione.
Finalmente si aprì la porta ed
entrò un uomo rozzo, vestito da tenente che mi offrì una
sigaretta e mi disse che il maggiore incaricato di interrogarmi doveva
partire per andare ad interrogare un capitano, suo compagno di corso ma
ora nemico, abbattuto sul fronte di Madrid e che quindi sarebbe rimasto
lontano almeno tre giorni. In dialetto triestino, con la caratteristica
cadenza carsolina mi disse che non sarei stato in grado di resistere fino
al suo ritorno dato che mi trovavo già da sette giorni in quella
situazione. “Accetta”, mi disse “racconta delle frottole come hanno fatto
gli altri”.
La prima cosa che vidi nell'ufficio dell'interrogatorio
fu un grosso bicchiere di acqua e mi precipitai per afferrano ma con altrettanto
impeto il maggiore me lo vietò.
“Calma”, mi disse, “vedremo se te lo meriterai”
e continuò; “chi sei?”. Risposi: “Sono l'ingegner Aldo Gilli” (nome
impostorni alla partenza per Siviglia) . “Dimmi il nome del tuo Comandante
di Gruppo e quello di Squadriglia” e sorvolò sulle scuse che adottai
per sottrarmi alla risposta. Mi schiaffeggiò quando dissi che non
dovevo rispondere alla sua domanda su quanti aerei aveva in dotazione il
mio reparto, anche perché avevo dichiarato che mi attenevo alle
disposizioni internazionali circa il trattamento dei prigionieri di guerra.
“L'Italia non è in guerra con la Spagna” disse e le domande si fecero
sempre più cattive. Si deve essere accorto che non gli rispondevo
a tono più per ignoranza che per volontà di non dare notizie
e rnan mano si faceva più bonario. Alla fine tirò fuori da
un cassetto una cartella e disse: “Vedi? Questa è la cartella dell'Asso
di Bastoni. Tu sei il sottotenente tale, e abbiamo tutto l'organico dell'Aviazione
Legionaria Italiana, di quella Tedesca e Spagnola”. Mi porse il bicchiere
d'acqua e mi tenne la mano per non farmi bere troppo in fretta e disse
che il trattamento che mi aveva riservato era diretto soltanto ad umiliarmi.
Il cambiamento di rapporto mi diede il
coraggio di chiedergli notizie sui miei compagni caduti nel loro territorio.
“Li vedrai al Mon Yuich (Montjuich)” disse, “perché ti accompagnerò
io per farti vedere i grossi danni ai palazzi e alle persone inermi, che
hanno provocato i vostri bombardieri”.
I danni non mi sembravano tanto gravi
quanto lui volesse farmi credere ma esistevano: le missioni di interdizione
effettuate dai nostri bombardieri erano dirette soprattutto sul porto per
ostacolare i rifornimenti e, fatalmente qualche bomba era caduta sulla
città.
Il Mon Yuich è una piccola collina
prospicente il porto, sulla cui cima si trova un castello-fortezza che
per la circostanza era adibito a prigione. Arrivati sul ponte levatoio
il Maggiore mi consegnò a degli agenti del S.I.M. che mi diedero
un piatto di latta, un cucchiaio di legno ed una coperta lercia e piena
di buchi. Scendernmo in uno stanzone sotterranneo lungo una trentina di
metri, largo circa sette-otto e sulla sinistra del portone, dal lato più
corto, c'erano cinque celle che ospitavano dei civili condannati a morte.
La condanna era stata inflitta loro perché imboscati o per non aver
partecipato alla lotta. Sulla destra dell'entrata alloggiavano (si fa per
dire) i prigionieri aviatoni.
Quando entrai fui quasi aggredito dai
miei compagni, alcuni dei quali mi avevano riconosciuto fin da quando attnaversai
il ponte levatoio, guardando dai numerosi finestroni esistenti. Alcuni
gridavano il mio nome e tutti volevano abbracciarmi. Fu una scena commovente!
I più anziani stavano lì da diciotto mesi e non avevano avuto
la possibilità di lavarsi, radersi e tagliarsi i capelli; soltanto
un mese o due prima del mio arrivo uno dei custodi, irnprovvisatosi barbiere,
compì l'operazione taglio ma niente lavaggio.
Sarà stato per non aver saputo
rispondere circa eventuali accordi per lo scambio di prigionieri, sarà
stato per aver ritrovato compagni che da molto tempo non vedevo e la pena
che provavo vedendoli così ridotti, ma mi emozionai talmente che
due lacrime mi bagnarono il volto.
Ad un certo punto quello che era il nostro
capo venne a dirmi che i tedeschi si erano schierati da un po' di tempo
e mi aspettavano per salutarrni; sbattendo i tacchi e inclinando la testa
mi tesero la mano pronunciando i loro nomi. Erano una decina come gli spagnoli
che andai a salutare senza la cerimonia offerta dai tedeschi.
La sistemazione era molto precaria e mentre
dirigevo verso la mia brandina, senza materasso e senza cuscino, mi si
avvicinò un collega bombardiere, che non conoscevo, per darmi una
camicia, ben piegata ma puzzolente, che a lui serviva da cuscino; un regalo
prezioso perché faceva parecchio freddo. Consegnandomela mi disse
che era di un condannato a morte che togliendosela gliela porse, tanto
a lui non sarebbe più servita. Non fu l'unico episodio del genere
perché altri, consegnando i loro indumenti, intonavano l'Inno Cara
al sol, corrispondente alla nostra “giovinezza” avviandosi sul posto della
fucilazione, anche se non appartenenti ad alcun partito, dimostrando un
fatalismo incredibile.
La mia brandina era in un posto infelice:
a circa un metro era stato praticato un foro di circa cinquanta cm. che
serviva ai condannati a morte per scanicarsi per l'ultima volta. Avevano
anche la possibilità di bere acqua che sgorgava da un rubinetto
che le guardie aprivano in quelle occasioni mentre in altre diventava un
nido di topi, che ogni tanto venivano a trovarci; le cimici e specialmente
i pidocchi erano onnipresenti.
Noi potevamo servirci di due latrine poste
a fianco del rubinetto che veniva chiuso quando i condannati a morte entravano
nelle loro celle. A noi era proibito usufruire del rubinetto ma le latrine,
che ci servivano molto poco in quanto non mangiavamo quasi niente, ci davano
la possibilità di raccogliere quella piccola parte di acqua che
gocciolava dal tubo di rifornimento delle cassette dello sciacquone.
Le brandine erano sistemate due a due
lungo le pareti più lunghe, noi italiani da una parte, tedeschi
e spagnoli dall'altra. Avevo vicino a me un sottotenente bruttino con una
barba ispida che faceva spavento. Era arrivato uno o due mesi prima di
me e non aveva scambiato parola con nessuno forse per il suo carattere
introverso, ma più probabilmente per il rammarico e la vergogna
per il modo in cui fu fatto prigioniero. Faceva parte di una pattuglia
di cinque aeroplani da consegnare ad un reparto; la comandava un vecchio
capitano che sbagliando rotta atterrò in un campo nemico e accortosi
dell'errore commesso per l'accorrere dei nemici armati, ripartì
con tre gregari mentre il sottotenente rimase a terra e fu preso.
Con le mie chiacchierate, esaltando i
voli che compivamo a Gorizia, raccontando quanto era bello vivere in un
ambiente formato da tutti amici, la brillante vita che conducevamo, riuscii
a renderlo meno orso, tanto che continuò per tutto il tempo che
passammo insieme a farmi domande su come si deve pilotare nelle varie figure
acrobatiche isolate o in formazione. Incominciò così a partecipare
alle discussioni anche con tutti gli altri pur mantenendo del riserbo.
Notai molto presto che dodici miei compagni,
divisi in due gruppi di sei, fumavano tre volte al giorno; al mattino,
dopo aver bevuto la brodaglia e mangiato i sessanta grammi di pane che
ci venivano elargiti per tutto il giorno e alla sera. Chiesi di essere
il tredicesimo anche perché dicevano che la misera fumatina mitigava
un po' la fame. I fornitori erano i condannati a morte che scambiavano
due sigarette camel e cartine per sigarette per due pezzi di pane. In ogni
gruppo c erano due specialisti; uno con una specie di lama, ricavata dalla
latta dei barattoli, tagliava una sottile fetta di pane che ognuno dei
componenti presentava e aveva l'abilità di non perdere una briciola,
l'altro era bravissimo a manipolare una camel per ottenere tre sigarettine
che consentivano ai componenti di avere una boccata di fumo tre volte al
giorno.
La vita era dura ma tanti gesti di generosità
mi aiutavano a sopportarla. Un giorno, dopo la distribuzione del pane,
stavo dialogando con un sergente istriano (Ugo Corsi), seduti sulla brandina,
quando il nostro capo invitò tutti noi a tagliare una fettina di
pane per darla ad un capitano dell'Esercito spagnolo. Era arrivato alla
mattina con la faccia tumefatta dalle botte e messo nella prima cella,
dalla quale si usciva soltanto per andare a subire l'esecuzione.
Ero arrivato da poco, sentivo ancora astio
per gli spagnoli e per tutti i maltrattamenti subiti e dissi al sergente
che non avrei partecipato alla donazione. “Mangi, mangi signor Tenente,
darò io anche per lei” mi rispose. E stata una dura lezione di etica
e generosità; rimasi annichilito e donai tutta la pagnotta. Lo avevo
conosciuto a Gorizia in seno allo Stormo dove, oltre a dimostrare le sue
doti di uomo corretto, leale e generoso si distinse in volo per le sue
grandi capacità. Fu abbattuto in Spagna durante il suo primo combattimento;
lo stesso gli capitò nella guerra mondiale, poi non seppi più
nulla di lui. Un altro sergente, sempre del mio Stormo, accettò
di barattare i suoi bei scarponcini con le scarpe vecchie scalcinate di
un agente del SIM dopo aver ottenuto un pugno di tabacco; lui non fumava
e lo diede a noi.
Io non ho assistito, ma mi è stato
raccontato dai colleghi, che un sottotenente piemontese di carattere duro
e strafottente richiamava su di sé, al grido di “cavrones”, gli
agenti del SIM che dopo i bombardamenti, per sfogare la loro rabbia, scendevano
per picchiare qualcuno.
Un'ora al giorno ci conducevano nella
fossa del castello per prendere aria e a noi serviva per spidocchiarci,
mentre i soldati dell'esercito imprigionati in altra parte della fortezza
godevano di quel beneficio nel patio della guarnigione. Quando questi furono
trasferiti (sapemmo poi che li àvevano fucilati ai piedi dei Pirenei)
un agente venne a prenderci dicendo che saremmo stati agevolati facendoci
prendere l'ora d'aria nel cortile lasciato libero dai partenti. Dovevamo
però comportarci come gli altri: ci avrebbe inquadrati, dato l'ordine
di attenti e quello di saluto (saluto antifascista). Nessuno di noi scambiò
parola sulla questione e quando, inquadrati, ci diede l'ordine di attenti,
obbedimmo tutti come bravi soldatini ma quando scandì l'ordine “salut
un due” nessuno si mosse. “Non mi sono spiegato” disse “quando ordinerò
salut sull'uno dovete portare il pugno della mano destra sulla fronte e
sul due riportare la mano al fianco”. Ci riprovò ma l'esito fu ancora
negativo. Intanto, un gruppo di militari ed uno di guardie civili sghignazzavano
perché i rapporti tra le organizzazioni non erano cordiali. “Non
mi avete obbedito perché non sono un militare” disse, “ma chiamerò
qualcuno al quale obbedirete certamente”. Si riferiva al tenente beccamorto
come lo chiamavamo noi; un uomo molto piccolo, smilzo che si muoveva a
piccoli scatti. Era quello che sparava il colpo di grazia ai fucilati che
non riuscivano a morire sotto i colpi della mitragliatrice. Arrivò
proprio lui e ci disse: “Avete fatto bene a non obbedire a quel civile,
io sono un militare e mi obbedirete”. Provò due volte ad impartirci
l'ordine ma senza effetto, dando l'occasione anche agli agenti di ridere
e schernirlo. Chiamò allora fuori dai ranghi un sottotenente spagnolo,
un ragazzone di diciannove anni e ghignando gli disse: “Tu sai chi sono
io e se non ubbidirai sai cosa farò?”. E così dicendo portò
la mano sulla sua pistola.
Gli diede l'ordine di attenti e lui, contrariamente
a quanto aveva fatto assieme a noi allargò le gambe, i pugni ai
fianchi e lo guardò spavaldamente tanto che ci fece temere di assistere
ad una esecuzione.
Quando Dio volle ci riportarono nel nostro
sotterraneo ed il giorno seguente un altro agente del SIM scelse due prigionieri
per ogni gruppo delle tre nazionalità e chiese, prima ad un italiano,
se era disposto ad andare a prendere l'ora di aria nel patio:
“Sì”, rispose, “ma senza condizioni”
. Il secondo e poi gli altri quattro dissero la stessa cosa. Furono chiusi
nella prima cella, anticamera della morte, e appena uscito il truce aguzzino,
aprimmo lo sportello della porta per dire loro che avevamo deciso di accettare
le condizioni imposteci, perché era stupido morire per così
poco. “Niente da fare” ci risposero, gridando che era una loro scelta e
non dovevamo fare una simile vigliaccata.
Ci affannammo a ripetere la nostra proposta
ma ricevemmo insulti e improperi.
L'episodio finì senza conseguenza
ma doveva essere successo qualcosa di importante.
Non abbiamo saputo se fosse stato l'intervento
del nostro inquisitore all'arrivo a Barcellona o qualche rapporto ai superiori
da parte dei nostri carcerieri, fatto sta che ricevemmo la visita del Governatore
Negrin in persona. L'ispezione doveva averlo turbato come le condizioni
in cui vivevamo perché pochi giorni dopo fummo trasferiti a Moncos
(Monjos) in una chiesa sconsacrata.
Le condizioni umane ed ambientali furono
molto diverse; i nostri carcerieri non erano più quelli del Mon
Yuich ma avieri comandati da un tenente campagnolo; ci avevano fornito
di materasso, anche se consisteva in un sacco contenente ritagli di sughero.
Quello che più contava era la possibilità di avere tutta
l'acqua che volevamo. Il fattore negativo era dovuto al fatto dei ritardi
che aveva la camionetta con i viveri per noi e i nostri carcerieri e quando
il ritardo superava le ventiquattro ore gli avieri si trattenevano la nostra
razione del giorno prima. Mangiavano poco anche loro, quasi come noi.
Eravamo sistemati noi e i tedeschi nelle
nicchie ai lati della navata principale e gli spagnoli dove prima stava
l'altare maggiore.
Ogni mattina il tenente chiamava due di
noi per riempire il serbatoio dell'acqua girando un volano del diametro
di un metro e mezzo circa. A fine lavoro ci offriva una sigaretta; la prima
volta io la accesi con bramosia mentre il mio compagno, che non fumava,
rifiutò il fuoco del tenente; era quello che soffriva di più
dei disagi e disse che l'avrebbe accesa alla sera con noi; l'ufficiale
insistette a porgergli il fuoco e lui accese ma alla prima boccata cadde
a terra svenuto.
Un giorno un tedesco riuscì a rientrare
senza averla fumata e venne a consegnarla a noi. Era un sottufficiale,
unico nel suo gruppo e, mentre gli ufficiali mantenevano un contegno riservato,
lui, bonaccione, veniva spesso insieme a noi anche se non capiva una parola.
Avevamo a disposizione un gabinetto ma senza lavandino; ed era così
bello fare la doccia anche se al freddo e con l'acqua gelata.
La liberazione
Il 10 dicembre, ricorrenza della nostra
patrona, la Madonna di Loreto, giunse il maggiore nostro inquisitore: ci
fece inquadrare nella navata principale e scandì il nome degli italiani
più anziani di prigionia, li fece uscire dai ranghi e accompagnare
fuori dalla chiesa. Tra tutti i pensieri che ci passavano per la mente
c'era anche quello di non vedere più i nostri quattordici compagni.
Il maggiore ci rasserenò quando, rientrato, ci disse che sarebbero
stati oggetto di uno scambio di prigionieri ma commise la grande ingiustizia
di non permetterci di parlare con i partenti per dare i nostri indirizzi
e portare notizie ai nostri cari che non sapevano se eravamo vivi o morti.
Le notizie le avrebbero avute ugualmente ma con il ritardo delle necessarie
ricerche. I miei genitori furono informati prestissimo; il sergente istriano
(Ugo Corsi) che offrì il pane anche per me, prima di andare a casa
si fermò a Trieste per informare i miei genitori, dimostrando ancora
l'animo generosissimo.
Altra brutta azione commise il maggiore:
quando ci comunicò che i nostri compagni da lui scelti sarebbero
stati liberati disse anche a quel sottotenente che si faceva picchiare
per difendere gli altri (era tra i veterani) che non rientrava nell'elenco
perché non avrebbe più visto l'Italia in quanto gli aveva
riservato un altro trattamento. Era una situazione difficile, non sapevamo
cosa dire e se qualcuno cercava di rivolgergli la parola per incoraggiarlo
rispondeva che più il tempo passava più soldi avrebbe trovato
al suo rientro e più cavalli avrebbe avuto l'auto che si sarebbe
comprato.
La visita medica subita dai rimpatriati
diagnosticò per tutti un principio di scorbuto e forse per questo
avemmo l'unica visita della Croce Rossa. Ci portarono sette sigarette,
una scatoletta di vitamine ed una cartolina stampata per scrivere non più
di dieci parole. Eravamo affamati e sentivamo il freddo; alcuni di noi
praticarono un foro al centro della coperta, tanto da far passare la testa,
per usarla come i sudamericani usano il poncho e rimanevano immobili il
più possibile per non consumare le poche calorie che lo scarso cibo
forniva.
I franchisti continuavano ad avanzare.
Quando ci trasferimmo sentivamo già da qualche giorno il rombo dei
cannoni e la nostra speranza di essere liberati entro breve tempo ci rinfrancava.
Ci portarono sempre più ad est e precisamente nell'aeroporto di
Figueras che dista pochi chilometri dalla catena dei Pirenei. Le condizioni
non migliorarono; ci rinchiusero in due per cella, trovammo però
branda, lenzuola e cuscino ed era un grosso vantaggio coricarsi nudi per
non essere mangiati dai pidocchi. Lo svantaggio era rappresentato dalla
poca disponibilità dell'acqua, le poche sigarette e il dover stare
tutto il giorno soli, in due, senza poter scambiare parola con gli altri.
Gli avieri erano dei bravi ragazzi e accorrevano sollecitamente quando
bussavamo alla porta della cella.
In gennaio abbiamo avuto la visita di
una commissione dell'Aeroclub di Francia che ci inviò poi viveri,
sigarette e vitamine; a noi arrivò una scatola capiente ma il contenuto
era ridotto ad un quarto di quello che era stato alla partenza.
Il tenente aveva già avuto sentore
che qualcuno voleva fucilarci; si premunì e quando arrivarono gli
anarchici per farci scavare la fossa, radunò tutti gli avieri, muniti
di fucili e bombe a mano, li affrontò e li fece allontanare. Il
5 febbraio ci avvisarono di non svestirci per essere pronti a fuggire e
il mio compagno di cella che è stato sempre vicino a me mi consegnò
un chiodo lungo sette centimetri dicendomi: “Tienilo tu che sei più
forte, ci difenderemo!”. In tanto tempo che siamo stati assieme e con la
poca possibilità di nascondere qualcosa non mi accorsi che teneva
questa “terribile” arma. L'ansia cresceva di ora in ora e nessuno ci diceva
nulla, ma finalmente il giorno 6, all'imbrunire, ci aprirono le porte e,
raccomandandoci il massimo silenzio, ci fecero letteralmente stipare in
un camion che ci portò ai piedi dei Pirenei. Fortunatamente durante
la salita gli avieri trovarono in un camion rovesciato in una scarpata
un sacco di farina di castagne che divorammo in pochi minuti. La marcia
era lenta, le nostre forze erano piuttosto scarse e ad una certa quota
ci fermammo per riposare.
Eravamo rimasti diciotto italiani; divisi
in due gruppi di nove, ci sdraiammo pancia contro schiena coprendoci con
le coperte che ci eravamo portati appresso.
All'alba del giorno seguente riprendemmo
il cammino ma questa volta senza mangiare e camminammo al buio prima di
raggiungere un altro posto di sosta. Con lo stesso procedimento della sera
precedente ci coricammo, ma per poco. Arrivò il maggiore e ci fece
spostare con molte precauzioni: c'erano dei miliziani che fuggivano per
rifugiarsi in Francia. Ancora una giornata di marcia dopo che il maggiore
ci fece spostare tre volte fino a quando ci aggregò ad un gruppo
di aviatori nostri avversari che ci accolsero cordialmente.
Raggiunto il posto di frontiera gli altri
aviatori poterono oltrepassare il confine mentre noi dovemmo attendere
in piedi per due ore prima di essere accompagnati a Bejuls in una grande
stalla. Qualche fanatico intonò “Giovinezza” e altri si unirono
a noi prima di un altro spostamento. A Port Vendres rimanemmo per due giorni
in un magazzino dove trovammo della paglia per un buon giaciglio.
Il giorno seguente i tedeschi ebbero la
visita di un diplomatico che lasciò loro dei soldi che spesero in
pane e sigarette; più tardi gli spagnoli ebbero una simile gratificazione
e noi niente! Soltanto verso sera arrivò un console (non so da dove)
e ci invitò a cena dicendo che sarebbe tornato più tardi.
Pensammo fosse andato a cercare una bettola adatta a ricevere la non troppo
elegante compagnia ma non era così. Tornò presto e ci condusse
in un buon ristorante facendoci entrare da una porta secondaria. Avevamo
una sala riservata e ci abbuffammo. Non eravamo quasi mai tutti a tavola
perché spesso qualcuno non abituato non riusciva a tenere nello
stomaco tutto quel ben di Dio.
Partirono i tedeschi, gli spagnoli ed
infine noi per Narbonne dove alloggiammo in un albergo più che decente.
Al grido: “Ragazzi nelle camere” partimmo come razzi. Il nostro accompagnatore
ci aveva raccomandato di svestirci appena entrati in camera e di buttare
le nostre tenute nel cestino dei rifiuti che sarebbero state immediatamente
ritirate; il mattino seguente ci avrebbe fatto trovare indumenti nuovi.
Camera singola con bagno, letto con materasso,
lenzuola bianchissime, coperta di piumino che non pesava niente e sapone
in doccia. Non riuscivo a prendere sonno: quel letto così morbido,
il cuscino e la temperatura adeguatamente regolata mi davano l'impressione
di essere in volo. Al mattino quando chiamai la cameriera e chiesi la colazione
la ragazza sorridente mi disse che ne avevo già fatte due però
fu sollecita a servirmi nuovamente. Dopo la terza, mentre gli altri, con
il lenzuolo sulle spalle, andavano a scegliere gli indumenti più
adatti alla loro corporatura, feci ancora la doccia allungando il mio ritardo.
Ero buon ultimo e trovai l'organizzatore
un po' contrariato; trovai un completo per una persona normale e non descrivo
il modo in cui ero conciato; non aveva molto importanza! Sentivo ancora
il profumo del sapone e non i morsi dei pidocchi.
Dopo varie telefonate e telegrammi partimmo
per Ventimiglia dove ci attendeva nientemeno che un Maggiore, non so se
pilota o meno; c'erano anche due funzionari della Fiat, dato che il CR
era prodotto da loro, per darci il benvenuto e offrirci vantaggiose condizioni
per l'acquisto di una loro automobile.
Il viaggio Ventimiglia-Roma lo facemmo
quasi tutto nel vagone ristorante, grazie alla benevolenza del personale
addetto. Ci avevano prenotato cabine letto doppie ma pochi le usarono.
Avevo telefonato alla mia fidanzata per
darle l'orario del nostro passaggio da Grosseto e quindi ultimare il viaggio
insieme ma rispose la sorella e forse per l'emozione non capì bene
e le diede un altro orario. Mi aspettò lo stesso sulla pensilina
e non mi individuò anche se cercavo di farmi riconoscere agitando
le mani; ero troppo magro e mal vestito. Mi riconobbe solo quando l'abbracciai.
Gli ex prigionieri, al loro rimpatrio,
devono subire una specie di processo per conoscere il loro comportamento
in terra nemica. Dovemmo aspettare otto lunghissimi giorni per essere ricevuti
dal Ministro dell'Aviazione, per sentirci dire che avrebbe cercato di trattarci
come quelli che avevano portato a termine le loro azioni.
La vita ricomincia - di nuovo a Gorizia
con il 4°Stormo
La vita era diventata ancora meravigliosa;
volare con la pattuglia acrobatica di Squadriglia, ottenere tante soddisfazioni
addestrando nuovi arrivati con eccellenti attitudini al volo, vivere la
vita coniugale con una donna che amavo moltissimo, avere come frutto del
nostro amore una bellissima bambina mi creava l'impulso di ringraziare
sempre mamma Aeronautica.
Ai tanti piaceri dovetti registrare due
brutte sorprese: la prima e più importante fu quella della partenza
di S.A.R. il Duca d'Aosta nominato Viceré e spedito in A.O.I. Si
diceva che lo zio Re preoccupato della grande e meritata notorietà
del nipote l'avesse trasferito perché non potesse creargli fastidi.
La seconda, quella della sostituzione del CR 32 con il CR 42. Aveva quasi
le stesse caratteristiche ma il profilo del primo non lo avrà mai
nessun'altro aeroplano al mondo.
Non è stato tutto rosa e fiori
perché ebbi il mio quarto incidente di volo: era una giornata di
maltempo con forti raffiche di vento e nessuno volava ma il Comandante
di Squadriglia decise di esibirsi con due gregari esperti. Era difficile
stargli vicino; in aria c era molta turbolenza tanto da farci ballare notevolmente.
Durante una virata in cabrata sul centro
della città il mio motore mi piantò secco; diressi immediatamente
verso il campo poco distante, sperando che il vento in coda mi consentisse
di arrivarci. Non fu così! Dovetti eseguire un atterraggio di fortuna
in un orticello tra la ferrovia ed un gruppo di case. La manovra mi riuscì
e avevo quasi smaltito la corsa di rullaggio ma a causa di un fossetto
capottai e mi produssi delle ammaccature.
La promozione in S.P.E. non arrivava e
le notizie non erano buone: al Ministero si erano accorti che ne avevano
elargite troppe e chiusero le concessioni. Ero abbastanza sereno perché
il Comandante dello Stormo, prima della mia partenza per la Spagna, aveva
promesso che avrebbe inoltrato la domanda per meriti speciali. In caso
negativo avrei rinunciato al grado e sarei rimasto aviatore magari sottufficiale.
Gioia profonda quando S.A.R. rientrato
dall'A.O.I. per contatti col Ministero, in uno dei suoi scali a Gorizia
per raggiungere la famiglia, che era rimasta al Castello di Miramare, tenne
un rapporto ufficiali e tra l'altro disse di aver vinto una buona battaglia
annunciando di aver avuto la promessa della promozione mia e di un collega.
A parte mi disse che aveva dovuto far
incamerare nella mia anche le due proposte di concessione di Medaglia d'Argento
al Valor Militare.
Nonostante la promessa il mio collega
non ebbe tale riconoscimento, probabilmente per non aver svolto sufficiente
attività alle Isole Baleari, dove i reparti Caccia non erano molto
impegnati.
Arrivò il Decreto del mio passaggio
in S.P.E., con un'anzianità insperata: ricorreva dalla mia nomina
a sottotenente; poco dopo arrivò anche la nomina a tenente con una
buona retroattività.
Di nuovo in guerra
La dichiarazione di guerra ci colse quando
l'altro Gruppo dello Stormo era già partito per l'Africa settentrionale.
Noi partimmo per Mirafiori per operare sul fronte occidentale. Ci fermammo
pochi giorni e ci trasferimmo in Sicilia per operare sul cielo di Malta.
Qui successe uno strano episodio che qualche tempo dopo sul cielo d'Africa
avrebbe potuto costarmi caro. Eravamo sulla verticale di Malta e tutti
vedemmo un velivolo che volava ad una quota poco superiore alla nostra
e nessuno pensò potesse essere un aereo inglese; soltanto al debriefing
capimmo che si trattava di un Gloster.
Partimmo poi per Bengasi dove sostammo
per alcuni giorni per una modifica alle graffette delle mitragliatrici
in quanto la sabbia poteva dar luogo ad inceppamenti. I lavori si susseguivano
a turno, Squadriglia dopo Squadriglia e la prima a raggiungere il fronte
ebbe un triste esordio: fu attaccata in fase di decollo da una formazione
nemica e subì dolorose perdite.
Da El Adem (a pochi chilometri da Tobruch)
andavamo in volo con serenità perché guidati da un uomo capace
e coraggioso (Ernesto Botto); era sempre lui il primo, anche se le sue
condizioni fisiche menomate da molteplici trasfusioni di sangue, lo costringevano
molte sere a letto colpito da febbre. Non si andava quasi mai in volo con
tutto lo Stormo ma una mattina all'alba partimmo tutti e raggiungemmo una
quota relativamente alta. Non avevamo le maschere per l'ossigeno e usavamo
un bocchino che funzionava piuttosto male e talvolta qualcuno veniva colpito
da anossia più o meno leggera da procurare uno stato confusionale
che spariva dopo aver perso qualche centinaio di metri di quota.
Comandavo l'ultima pattuglia di tre aeroplani
e scorsi, poco distante da noi, un velivolo che volteggiava ad una quota
un po' più alta della nostra. Le condizioni di visibilità
erano scarse a causa di una foschia abbastanza consistente e non distinguevo
se era uno dei nostri. Ricordando l'episodio su Malta, lasciai la formazione
e lo inseguii; stavo già per provare le armi perché lui cercava
di difendersi credendoci nemici e soltanto quando lo collimai mi accorsi
che era uno dei nostri. Mi avvicinai sbattendo le ali e in qualche modo
si aggregò. Avevo intuito che era entrato anche lui in stato di
anossia e perse quota rapidamente. Dopo una picchiata di un migliaio di
metri si riprese e iniziò a sbattere le ali in segno di contentezza
e gratitudine.
Il 1° novembre (dal libro di Duma
e dal memoriale di Ernesto Botto risulta il 20 novembre) persi il più
caro dei miei gregari (Carlo Agnelli) in un duro combattimento. Eravamo
in volo con tutto il Gruppo e le tre Squadriglie erano scaglionate in quota:
la prima a bassa quota, per la scorta diretta ad un ricognitore, la mia
a tremila metri e la terza più alta. La Squadriglia più alta
aveva già ingaggiato combattimento (su Bir Emba) e vidi un nostro
aereo in picchiata quasi verticale (candela) inseguito da un Gloster; mi
rovesciai violentemente tanto che i miei gregari non furono in grado di
seguirmi. Arrivato a distanza di tiro potevo sparare all'inseguitore ma
c'era il pericolo di colpire anche il nostro compagno; non potevo guardarmi
in giro perché la mia attenzione era diretta a collimare il nemico
al momento giusto e in direzione di sicurezza. Fui attaccato da due Gloster
e la prima sventagliata mi portò via l'elica, così senza
motore dovetti giostrare soltanto per difendermi; violente cabrate in candela,
virate, rovesciamenti a vite non sono stati sufficienti a non farmi colpire
ancora ma per fortuna non in parti vitali. Persa tutta la quota atterrai
in qualche maniera. Gli inglesi che avevano smesso di spararmi già
quando ero in fase di planata mi sorvolorano salutandomi, agitando le mani.
Ero nella cosiddetta zona di nessuno ma
in realtà era loro; scorazzavano in lungo e in largo con le loro
autoblindo. Tentai di incendiare l'aeroplano ma non vi riuscii. Esperienze
fatte da colleghi mi consigliarono di portare via il paracadute e utilizzarlo,
in caso di necessità, per fare segnalazioni per eventuali ricerche
in mio favore, usarlo per fasciature in caso di distorsioni o punture di
insetti. Era pomeriggio inoltrato ed il sole, in fase calante, mi fu utile
per l'orientamento; le difficoltà sorsero al suo tramonto: vedevo
fari di automezzi che probabilmente, da segnalazione di due piloti che
mi avevano abbattuto, avevano ricevuto l'ordine di perlustrare la zona
e catturarmi. Le mie conoscenze di astronomia sono molto scarse ma miracolosamente
mi ricordai che un amico mi disse che in quel periodo, la linea immaginaria
che unisce Sino e Venere segna la direzione est-ovest. La lezione di astronomia
mi fu utilissima: tutte le volte che scorgevo fari di automezzi dovevo
tuffarmi per non farmi vedere e tutte le volte che mi rialzavo, se non
avessi avuto l'ausilio delle stelle mi sarei diretto istintivamente in
tutt'altra direzione. Camminavo e correvo da parecchio tempo quando inciampai
su un filo e sicuro che si trattasse di una linea telefonica tra due nostre
postazioni me lo misi all'interno del gomito e lo seguii puntando a nord.
“Altolà” sentii finalmente intimarmi: risposi e caddi stremato.
Per tutto il tempo che durò la fuga non avevo mai sentito stanchezza,
fame, sete o voglia di fumare; fu proprio la fiamma del mio accendisigari
che segnalò la mia posizione ad un tenente che si avvicinò
rapidamente. Sentito il mio racconto mi chiese un documento che io non
avevo e diede ordine alle guardie di arrestarmi. Mi rivolse l'invito ad
alzarmi ma non riuscii ad accontentarlo: gli chiesi di chiamarmi un suo
superiore; chiesi di farmi aiutare dalle guardie e sentito chi ero e perché
ero là mi fece accompagnare in una tenda. Ero arrivato in un ospedale
da campo. Voleva curarmi le graffiature del viso che mi ero procurato tuffandomi
nella sterpaglia ma lo fermai e gli domandai di guardarmi prima i piedi
dato che mi facevano più male. Calzavo degli stivaletti un po' troppo
grandi che col movimento mi crearono delle enormi vesciche su tutta la
pianta del piede.
Si fece giorno e un maggiore, che aveva
chiesto l'autorizzazione, mi fece accompagnare in una sede di uno Stormo
più avanzato del nostro. Da questa base raggiunsi la mia con una
Caprona (CA 133 addetto ai trasporti) pilotata da un collega caro e simpatico
con cui ci ritrovammo dopo qualche anno nello stesso reparto dove diventammo
molto amici.
Allo Stormo non avevano avuto notizie;
mancavamo in tre e sapevano soltanto, perché visto, che un sergente
si era lanciato con il paracadute. Avevano visto anche un nostro velivolo
sfracellarsi dopo un furioso combattimento e pensarono che il pilota fossi
io perché l'altro, il mio caro gregario, era troppo giovane ed inesperto
per tenere a bada i tre nemici. L'incontro con il mio Comandante fu tragicomico:
mi recai nella sua camera e lui, Gamba di Ferro (Ernesto Botto), mi aspettava
sulla soglia e spiccando un salto dai tre gradini che ci dividevano, mi
rovinò addosso; io con i miei labili sostegni non riuscii a sostenerlo
e finimmo a terra ma abbracciati. Con questo episodio ebbe fine il mio
quinto incidente di volo.
La Squadriglia aveva ricevuto l'ordine
di inviare a Torino un tenente anziano per il ritiro di alcuni velivoli
e il Comandante chiamò me ed un collega (s.ten. Neri De Benedetti)
perché ci mettessimo d'accordo su chi dovesse partire. Il mio grande
amico non volle discutere: dovevo partire io perché ero sposato
e avevo una figlia di pochi mesi. Mi affannai a dire che la mia situazione
familiare non poteva entrarci e che lui aveva la fidanzata a Milano e quindi
in situazione simile alla mia. Non ci fu niente da fare. Testardamente
continuò nella sua versione fino a quando il Comandante, tagliato
uno stecchino in due parti, disse: “Chi prenderà la parte più
lunga partirà”. La parte più lunga toccò a lui, ma
buttò lo stecchino sprezzantemente dicendo che non sarebbe partito.
Il Comandante era nostro amico, ma gli disse: “E un ordine, devi partire”.
E lui rispose: “Me ne frego” e partii io.
Il rientro a El Adem fu drammatico, lui
non c'era più. Il dolore immenso fece scaturire una rabbia contro
me stesso per aver accettato di partire al suo posto che talvolta mi perseguita
ancora. Alla sera si rimaneva al circolo a discutere o a giocare a bridge
ma qualche volta si usciva all'aperto per osservare i tiri della contraerea
di Tobruc contro i bombardieri nemici o ad ammirare le stelle e fu in una
di queste sere che appresi nozione della relazione tra Sino e Venere. Eravamo
seduti sui gradini del circolo quando arrivò un ufficiale incaricato
di consegnare al Comandante (magg. Vincenzo Dequal) del primo Nucleo di
Aerosiluranti (S79) , arrivato da pochi giorni dalla scuola di Gorizia,
il primo ordine di missione. Ad uno degli amici saltò in testa un'idea
balzana e ci raccontò che quando era alle Baleari, talvolta si imbarcava
su un aereo dei bombardieri che agivano in Catalogna e mi propose di chiedere
al Comandante, che era un mio concittadino, il permesso di salire a bordo
dei due velivoli che dovevano compiere la missione. Mi rifiutai parecchie
volte poi alla fine, temendo di essere considerato codardo, accettai. Evidentemente
il
maggiore, oltre a negarmi il permesso, mi diede dello sconsiderato. Non
rimasi male, anzi; non mi andava a genio di partecipare a quella missione
ma gli altri due decisero di salire furtivamente su un aereo. A questo
punto li seguii e mentre loro, con un solo paracadute, si nascosero su
un aereo, iosenza aver trovato un paracadute salii sull'altro. Il mio era
quello del capo coppia e mi nascosi in un angolino proprio in coda alla
fusoliera ma dopo il decollo mi spostai vicino ad un finestrino, tanto
ormai non potevano lanciarmi nel vuoto. Era buio pesto e sul mare non si
vedeva niente ma qualche minuto più tardi vidi qualche cosa che
mi sembrò un razzo di segnalazione e mi avvicinai al pilota che
meravigliato mi guardò con tanto di occhi, e seguì le mie
indicazioni individuando la flotta. Con una violenta virata in picchiata
si portò a pelo d'acqua dirigendo verso una delle navi e sganciò
il siluro. Si accorse di averla colpita e si mise a volteggiare per vederla
affondare. Sapemmo in seguito che si trattava dell'incrociatore Liverpool
trainato poi nel porto di Alessandria.
Il pilota era un tenente molto brillante
e un valido acrobata, ma essere coraggiosi è un conto, essere incoscienti
è un altro. Eravamo bersaglio di nutrite scariche di artiglieria
contraerea e fui invaso da una delle più grandi paure della mia
carriera. Ero stato bersagliato altre volte ma la possibilità di
controbattere o manovrare per difendermi dagli attacchi mitigava, anche
se si trattava pur sempre di paura, quest'ultima; a bordo del silurante
ero inerme e inerte.
Un'altra fustigazione mi attendeva all'atterraggio:
c'era molto personale in linea di volo, compreso il Colonnello (Michele
Grandinetti), e quando scesi dall'aereo mi investì come se volesse
uccidermi gridandomi gli impropeni più cattivi del suo vocabolario
ricco di queste espressioni. Quello che mi sconvolse fu quando disse che
ero la causa di avergli fatto perdere i due pilastri del suo reparto e
che il giorno seguente mi avrebbe spedito in Italia per scontare gli arresti
in fortezza. Capii il suo stato d'animo perché effettivamente l'attesa
era stata lunga; la cosa si complicava sempre più per aver perso
il contatto con il gregario, che, perso l'orientamento, era atterrato alla
fine dell'autonomia. I miei due compagni si costituirono e tutto finì
in gloria.
Il periodo della prima ritirata fu molto
duro e triste; eravamo rimasti in pochi e con pochi velivoli. Il nostro
compito più importante era quello del mitragliamento alle autoblindo
e in uno di questi mi successe il sesto incidente di volo. Dovevamo decollare
da El Adem e atterrare più ad ovest, a Derna. Dopo il mitragliamento
in fase di rientro e in cabrata scorsi un Hurnicane che puntava, da più
alto e a sinistra, la nostra formazione.
Ero, come spesso mi succedeva di essere,
il leader dell'ultima pattuglietta di tre velivoli; tirai una decisa virata
in cabrata e ci incrociammo muso contro muso sparando. Dopo di che, con
violento rovesciamento lo inseguii e staccai i miei gregari che non poterono
seguirmi in una manovra tanto decisa e atterrarono a Derna dicendo che
avevo abbattuto il nemico; non seppi mai se fosse vero ma non volli che
mi fosse assegnato anche perché le forti sollecitazioni infertemi
dalle violente manovre mi lasciarono in stato di semi-incoscienza. I miei
due gregani asserivano che avevo ottenuto la vittoria perché, da
lontano, avevano visto che facevo festa eseguendo delle grandi e strane
cabrate e virate. Ero invece entrato in quello stato nebuloso e vedendo
la terra avvicinarsi tiravo la cloche per riprendere quota. Mi diressi
verso El Adem e sentendo che stavo per svenire atterrai fuori campo per
il sesto incidente di volo. L'aereo ebbe pochi danni e fui soccorso da
un collega richiamato in servizio che era anche medico.
Le condizioni di magra degli ultimi tempi,
in cui ci si nutriva esclusivamente di carne in scatola, contribuirono
senz'altro a lasciarmi in non buone condizioni fisiche per sostenere la
fatica notevole per la quantità di lavoro che dovevamo svolgere
e fu una causa degli sballottamenti subiti nell'abitacolo dove mi produssi
una ferita alla mano e ruppi l'orologio. Il velivolo fu rimesso in efficienza
in poco tempo e dopo qualche ritocco al terreno dove ero atterrato potei
ripartire per Derna.
Una mattina, che seguiva una giornata
di intensa attività, mi scappò di dire ad un amico che soffrivo
di un po' di mal di testa; neanche a farlo apposta arrivò subito
l'ordine per una missione con due sezioni di tre velivoli ciascuna e una
di queste avrei dovuto portarla io. Il gruppo era comandato da un capitano,
uomo e pilota eccezionale e valorosissimo; il mio collega si recò
da lui, gli disse che non mi sentivo bene e chiese di prendere il mio posto
e ottenne il permesso di sostituirmi. A nulla valsero le mie rimostranze
e lo stato d'animo che mi pervase fu indescrivibile: senso di colpa e vigliaccheria
mi annientarono e ognuno dei novanta minuti che durò la missione
lo passai in una tale agitazione che mi sembrava di impazzire al pensiero
di non vederlo più. Anche quando li vedemmo in lontananza, in fase
di rientro mi sembrava di contarne cinque anche quando, con pacche sulle
spalle e beffeggiamenti, mi dissero che erano sei.
Ancora a Gorizia
Rientrammo a Gorizia a fine anno per un
turno di riposo e addestramento ai giovani ancora sui CR. Arrivò
l'ordine di inviare a Bologna due aerei sperimentando così un razzo
illuminante da lanciare sul bersaglio a beneficio dei bombardieri. Questa
volta non ebbi esitazioni. La sorte era toccata a me e non aderii alle
proposte di tutti i colleghi di sostituirmi perché ero uno degli
unici ammogliati. È stato un periodo breve ma piacevole; di giorno
volavo in coppia con il mio gregario e di notte, se non effettuavamo prove
per le modifiche necessarie al sistema di lancio, mi divertivo a volare
con figure acrobatiche anche senza punti di riferimento, causa l'oscuramento.
Il Comandante dello Stormo era burbero
e severo con i suoi ma affabile con me; mi disse di compiere giravolte
sul cielo della città per dare l'impressione ai cittadini di essere
difesi in caso di bombardamenti, ma di non incoraggiare i suoi a fare altrettanto:
aveva perso da poco tre equipaggi sull'Appennino per queste ragioni.
Rientrati a Gorizia un tenente più
anziano di me (Giulio Rainer) mi chiese di partire con lui in una sezione
di sei velivoli per eventuali allarmi e difesa della città di Brindisi;
eravamo amici e per stima reciproca accettai.
Svolgemmo solo attività addestrativa
perché non vi fu nessun allarme. Eravamo a tavola quando un cameriere
venne a chiamarmi per rispondere ad una telefonata; era il colonnello capo
ufficio operazioni del Ministero. Mi conosceva perché era stato
mio comandante di Gruppo. Mi chiese se gradivo essere inviato sui vari
fronti con aerei muniti di macchina cinematografica per riprendere fasi
salienti di tutte le attività delle varie specialità della
nostra Arma e trasmetterle durante i film Luce. Si trattava di aggregarsi
ai Gruppi da caccia e partecipare a combattimenti, mitragliamenti e scorte
ai bombardieni.
Il colonnello che mi aveva fatto la proposta
di diventare cineasta mi imbrogliò. Avevo accettato perché
mi aveva promesso che non sarei stato trasferito dal mio Stormo e avrei
svolto l'attività temporaneamente, ma non fu così. In uno
dei tanti rientri a Roma dovetti assistere alla rassegna fatta dal Duce
al mio Stormo che era in partenza per il secondo ciclo di operazioni col
nuovo Macchi 202. Il mio profondo rammarico di non essere con loro fu mitigato
dalla promessa formale fattami dallo stesso colonnello di rimandarmi al
Reparto appena ottenuta la promozione a capitano.
A Campoformido con la 73^ Squadriglia
Arrivò la promozione e l'assegnazione
al mio vecchio Stormo rischierato a Udine perché a Gorizia avevano
istituito la Scuola Caccia e Siluranti, e arrivò pure un maschietto
a rallegrare la mia famigliola.
Mi fu assegnato il compito di comandare
una Squadriglia (la 73^). Facevo la spola tra Udine e Gorizia ed un giorno
viaggiai con il pittore Crali che aveva ottenuto l'autorizzazione ad essere
portato in volo da noi per provare le sensazioni visive date da voli acrobatici
che poi raffigurò su tela. Si recava a Udine per una riunione di
artisti presieduta da Filippo Marinetti, maggiore rappresentante del movimento
futurista, e mi chiese di raccontargli l'avventura del mio lancio col paracadute,
per dipingerla. Raccontò quello che aveva sentito da una giovane
poetessa che, in estemporanea, scrisse e lesse un brano al congresso. Un
collega che si interessava d'arte, presente alla riunione, mi portò
la poesia in originale.
Terminato il periodo di addestramento
dei giovani partimmo per il terzo ciclo di operazioni con la consueta sosta
in Sicilia.
Sostenemmo cruente battaglie ed avemmo
dure perdite. Quando arrivavamo sul cielo di Malta, molto spesso gli Spitfire
ci piombavano addosso da una quota superiore; avevano i radar e captavano
le nostre partenze. Durante una missione di scorta ai bombardieri, gli
Inglesi ci accolsero con un nutrito fuoco di artiglieria contraerea riempiendo
il cielo di nuvolette bianche; le guardavo quasi godendomi lo spettacolo
quando una scheggia mi forò la tubazione del carburante e la relativa
perdita di esso mi procurò il settimo e più grave incidente
di volo. Il motore mi piantò in mezzo al canale; vedevo la costa
e speravo di trovare un arenile per atterrare ma, quasi alla fine della
planata, dovetti constatare che era tutta frastagliata e atterrai in qualche
maniera in un prato.
L' invalidita' permanente al volo
Non ricordo niente della manovra effettuata.
Seppi però in seguito che l'indagine tecnica stabilì che
lo spazio era insufficiente per un atterraggio di fortuna e l'impatto con
il terreno e la conseguente forza d'inerzia, dovuta alla velocità
e al peso dell'aereo, provocò la rottura dei sostegni del seggiolino;
per questo fui sbattuto violentemente contro il cruscotto. Seppi anche
che mi trasportarono all'ospedale di Licata e successivamente, in coma,
a quello di Palermo.
Riprendendo lievemente i sensi avevo l'impressione
di essere accarezzato da un angelo; era invece una anziana signora che
da cinque giorni mi stava vicino e con una garza mi puliva il viso dal
pus che mi usciva dalle ferite. Il primo intervento chirurgico è
stato terribile! Mi era stata praticata l'anestesia generale ma al primo
contatto con una pinza sentii un gran dolore e dissi al chirurgo di smettere
perché sentivo troppo male; ero completamente sveglio e lui non
rispondeva continuando a tormentarmi. Supplicavo le due suore, che lo stavano
assistendo, di intervenire per convincerlo a desistere perché il
dolore diventava lancinante. Prima di svenire inveii contro tutti tre per
la loro indifferenza.
Il Comandante di Aerosicilia e il Cappellano
Militare chiesero al direttore dell'ospedale di trasfenirmi al centro Mutilati
di Milano e avuta risposta negativa decisero di farmi scappare. Il Cappellano
Militare e un infermiere mi fecero salire furtivamente su una macchina
e con un aeroplano mi accompagnarono a Milano.
Al Centro Mutilati ebbi la fortuna di
incontrare l'insigne dottor Sanvenero Rosselli, che mi visitò e
diede ordine di portarmi, il giorno seguente, nel suo ambulatorio privato
dove disponeva di una migliore attrezzatura. La diagnosi fu: frattura commista
delle ossa nasali proprie, setto nasale e arco zigomatico destro, più
contusioni varie. Mentre mi praticava delle iniezioni per l'anestesia locale
disse che era stato un grave errore quello di avermi fatto quella generale.
Dopo avermi applicato un divaricatore alle narici incominciò il
suo lavoro con attrezzatura idonea; mi faceva male quando usava il seghetto
ma soprattutto con scalpello e martelletto; però non era niente
in confronto alla prima operazione a Palermo. Finito l'intervento mi tamponò
le narici e mi copri il naso con un involucro metallico e mi fece mandare
in licenza di convalescenza per tre mesi.
Dopo un altro intervento, più doloroso
del precedente, il periodo di permanenza in ospedale fu più lungo.
Dovevano medicarmi le ferite e sottopormi ad applicazione elettro-galvaniche
per curare la diplopia con paresi del muscolo grande obliquo, sorta per
la frattura dell'arco zigomatico.
Talvolta i feriti non costretti a letto,
venivano accompagnati ad assistere a manifestazioni teatrali, sportive
e altro, ma io non partecipavo perché il naso metallico mi dava
un aspetto terrificante. Una sera dalla mia cameretta sentii un gran baccano,
mi affacciai alla finestra e vidi tanti degenti spensierati e allegri;
scesi per godere della loro allegria e appena uscito, un tenente degli
alpini, grande e grosso, al quale avevano amputato una gamba e un braccio,
mi strinse e mi gridò con tutta la sua forza: “Capitano, soltanto
alpini ed aviatoni conoscono il grido dell'aquila” e si mise a piangere.
Anch'io mi commossi.
Al rientro dalla seconda licenza di convalescenza,
sempre di novanta giorni, il bravo chirurgo mi levò l'involucro
metallico e i tamponi e compiaciuto mi disse che tutto andava bene ma che
doveva rioperarmi per darmi un aspetto estetico migliore. Erano più
di sei mesi che non respiravo dal naso con il disturbo che si può
immaginare; ora respiravo bene e rifiutai un ennesimo intervento.
Mi fece preparare una specie di casco
fatto su misura con due piccoli bracci che premevano il naso dalle due
parti e mi raccomandò di portarlo il più possibile.
All'Istituto Medico Legale fui dichiarato
non idoneo al volo e inviato in licenza per altri tre mesi. Avrò
fatto forse un mese quando il Comandante dello Stormo mi telefonò
dicendomi che aveva bisogno di me e di raggiungerlo a Bresso dove il reparto
era a riposo in attesa dei Macchi 205.
Conoscendo le condizioni disagiate che
avrebbero trovato in Sicilia, intendeva incaricarmi di svolgere tutte le
pratiche burocratiche per le riparazioni dei velivoli e quelle logistiche
per ospitare i piloti in breve riposo e ricevere i nuovi piloti assegnati
e farli addestrare dai piloti che avrei avuto a disposizione.
Lo Stormo partì ed io raggiunsi
Ciampino con tutto il materiale, poi Foligno e infine definitivamente Pescara.
Con il passare del tempo stavo migliorando
e, anche se oberato di lavoro, quando c'erano aeroplani in volo uscivo
e diventavo nervoso per il non poter volare. Vinse la voglia e commisi
una grossa indisciplina: cominciai a volare con i giovani; tanto non c'erano
superiori a controllarmi ed i piloti mi assicuravano il loro silenzio.
Nonostante ciò il Comandante lo
venne a sapere e in occasione di una sua visita con il generale che comandava
la caccia, mi mandò immediatamente all'Istituto Medico Legale per
farmi fare idoneo al volo. Non solo mi scartarono, ma mi giudicarono non
idoneo al servizio militare.
Dovetti dare le consegne ad un capitano
che pochi giorni dopo fu fucilato dai Tedeschi insieme ad un tenente. Arrivai
a Gorizia in quel nefasto 8 settembre 1943 che sconvolse questa nostra
cara Patria.