Aldo Gon

Trieste 23-05-1914  - 12-07-1994 Padova
 

Nato il  a Trieste il 23-05-1914, inizia a volare nel 1935 Parma e poi a Foligno. Nel novembre dei 1936 viene assegnato al 4° Stormo di Gorizia. Partecipa alla guerra di Spagna con la 96^ Squadriglia e cade prigioniero dei repubblicani. Durante la Seconda Guerra Mondiale combatte in Sicilia, Malta ed Africa e vola prima con il CR42 e poi con il MC200 e MC202. Nel 1960 assume il comando della circoscrizione Friuli Venezia Giulia Campoformido e si batte insieme all'amico e Capo di Stato Maggiore Aldo Remondino, per avere la Pattuglia stabilmente sui cieli friulani che qui la videro nascere. Si batte anche per la costruzione sull'Aeroporto di Gorizia del monumento al Duca d'Aosta. Animo schietto e contrario a qualsiasi compromesso si crea diverse inimicizie e per questo suo carattere viene trasferito a Padova nel novembre del 1963 dove va in pensione anticipata con il grado di Generale di Brigata Aerea. Muore a Padova il 12 luglio 1994.
 
 

Gorizia, 6 novembre 1937
Il duca d’Aosta con i piloti reduci della guerra di Spagna davanti la Palazzina Ufficiali.

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Aldo Gon

 
Meta' anni '30
Aldo Gon dinnanzi ad un velivolo Caproni Ca 97 con motore Jupiter quadripala.

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Parma - 1935
Gon (al centro) ed altri allievi piloti al corso di pilotaggio davanti ad un velivolo Ro.1 da ricognizione ed appoggio tattico.

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A.S.I. - 1940
Piloti del IX Gruppo, da sinistra Aldo Gon (96^), Giulio Reiner con il cane (73^), Carlo Agnelli (96^), Ezio Viglione Borghese (97^), Armando Moresi (96^), Alvaro Querci (73^). Da notare la sahariana indossata da Gon con sul taschino sinistro il distintivo da pilota dell' aviazione del Tercio.

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Gorizia - 17 maggio 1935.
Formazione di C.R.20 sul campo.

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Gon (1°) scherza con Paolazzi ed altri piloti della 96^ Squadriglia. Il velivolo e' un Fiat C.R. 42
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Spagna, Bello - 2 aprile 1937
Il C.R. 32 (MM 183) di Aldo Gon, atterrato fuori campo e recuperato.

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Spagna  - 1937
Un Fiat C.R. 32 con codici identificativi 3 - 7 del XXIII Gruppo "Asso di Bastoni", 18^ Squadriglia.

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El Adem (A.S.I.)  - 1940
Operazioni di manutenzione su un Fiat C.R. 42 MM 5649 della 96^ Squadriglia. I primi due a destra sono gli aiuto motorista Vigano' e Villa.

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El Adem (A.S.I.)  - 1940
Un Fiat C.R. 42 della 96^ Squadriglia durante una prova motore.

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El Adem (A.S.I.)  - 1940. Un Fiat C.R. 42 durante la prova motore.
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Campoformido -  marzo 1942
Piloti della 73^ Squadriglia (IX Gruppo, 4° Stormo), davanti ad un MC 202 appena assegnato al Reparto e poco prima della partenza da Campoformido per l’Africa. Da sinistra, s.ten. Costantino Petrosellini (1°), s.ten. Giuseppe Oblach (2°), ten. Vittorio Squarcia (3°), cap. Aldo Gon (4°), gen. Piccini, serg.m. Rossi, serg. Mario Guerci, serg.m. Santo Gino, s.ten. Alvaro Querci.

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Spagna - 1938/1939
Piloti della 18^ Squadriglia, XXIII Gruppo Asso di Bastoni, davanti alla baracca che ospita il Comando.

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Paolazzi (1°), Gon (2°), Annoni (3°).
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El Adem (A.S.I.) - 1940
Piloti davanti alle baracche del campo. Da sinistra: il comandante dello Stormo col. Michele Grandinetti, un aviere (dietro a Grandinetti), il com.te del IX Gruppo col. Ernesto Botto, il com.te della 96^ Squadriglia Roberto Fassi ed Aldo Gon.

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El Adem (A.S.I.) - 1940
Fiat C.R. 42  della 96^ Sq. (MM 5605) con i due distintivi del Gruppo: quello ufficiale del IX, il Cavallino Rampante bianco in campo nero, e quello ufficioso della Gamba di Ferro in onore del com.te Botto M.O.V.M. per le operazioni in Spagna. Il C.R. 42  96-2 era il velivolo abitualmente usato da Aldo Gon.

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Gorizia - 4 novembre 1962
Inaugurazione monumento Duca d'Aosta. Nel cielo 9 F-86E della PAN.

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Gorizia - 4 novembre 1962
Inaugurazione del monumento al duca d’Aosta. Gon (1° a sinistra) con Segni ed Andreotti.

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Il progetto del monumento al Duca d'Aosta come pensato da Paolo  Caccia Dominioni, XIV Conte di Sillavengo, soldato e architetto.
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Gorizia - 12 dicembre 1937
Statua donata dal Duca d'Aosta, comandante della Divisione Aquila, al Circolo Ufficiali dell'Aeroporto di Gorizia il giorno della sua partenza per l'Africa .

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Gorizia - 12 dicembre 1937
Annotazione relativa alla Statua donata dal Duca d'Aosta.

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Gorizia - 17 maggio 1975
Raduno di piloti del 4° Stormo.
Da sinistra: Costantino Petrosellini (1°), Simeone Marsan (2°), Aldo Gon (3°), Pietro Dell'Antonio (4°) l'impresario Tacchino (6°, pilota della R.U.N.A.). In seconda fila Italo Larese.
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Gorizia - 17 maggio 1975
Raduno di veterani del 4° Stormo. Ristorante Lanterna d'Oro, in Borgo Castello; da sinistra: Leoni (1°, seminascosto), Aldo Gon (2°), Giuseppe Biron (3°), Vittorio Pezze' (4°), Paolo  Arcangeletti,1° Stormo (5°), Dante Labanti (6°), Enrico Dallari (7°), ItaloLarese (8°).

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Grosseto -  23/24 agosto 1989
Incontro dei Reduci (Veci) del 4° Stormo. In piedi da sinistra: s.ten. Pietro Venanzi, s.ten. Giorgio Vanno, t.col. BenedettoTesta, cap. Alberto Rosso, cap. Renato Mericio, col. Mazza (comandante del 4°Stormo), Giulio Reiner, t.col. Franco Girardi, cap. Daniele Giorgetti, cap. Alessandro Scalmana, s.ten. Marco Venanzetti (nascosto). Seduti da sinistra: Aurelio Lise, Fernando Malvezzi, Enrico Dallari, Michele Caroselli, Paolo Berti, Dante Labanti, Otello Gensini, Carlo Verda, Corrado Patrizi, Emanuele Annoni. A terra: Amleto Monterumici, Aldo Gon, Pierugo Gobbato, Gianni Barcaro.

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Estratto del libretto di  volo
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Estratto dal  libretto di volo
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Memorie di un pilota del 4° Stormo di Gorizia
per gentile concessione del figlio Paolo riportiamo alcuni stralci del libro di memorie di Aldo GON

Quando il mio amico Alfredo ebbe finito il periodo di servizio militare quale sottotenente di complemento in Fanteria, rientrato a Trieste mi disse: "Ti te anderà in Aviazion ..." e "Ti te xe mato nela testa" risposi. Ha impiegato molto tempo e molte parole per esaltare gli aviatori che aveva avuto modo di conoscere a Gorizia, prima di convincermi ad andare con lui all'idroscalo per consultare, se lo avessimo trovato, un bando di concorso per Allievi Ufficiali Piloti.

A fine mese mi fu concesso di tornare a Trieste per sostenere gli esami. Non avevo ancora visto un aeroplano da vicino ma sul petto della mia bella divisa da Allievo avevo puntato l'aquila da pilota (senza averne diritto); volevo far colpo sulla mia ex professoressa di francese che non mi vedeva da tre anni ma che si ricordava bene di me; quando mi vide, con un sorriso angelico ed alzando le braccia al cielo, esclamò: "Cielo, tutto avrei pensato, ma che gli asini volassero proprio no!". Mi abbracciò e mi rese felice. Era una bella donna, attraente, sulla cinquantina, con una chioma rossa tiziano che faceva voltare la testa a tutti gli uomini che incontrava; le sue maggiori doti erano la bontà, la psicologia e la spiritosaggine. Diventammo amici più tardi, quando alla fine di una riunione di compagni di scuola, l'organizzatore ci disse di andare il giorno seguente a trovare la "baba" di francese che stava poco bene.

Andammo in nove e lei ricevette i primi otto con un: "grazie caro" ma quando arrivai io mi abbracciò ed esclamò: "caro il mio..." e pronunciò il mio nome.

Da quel giorno le visite si fecero settimanali e se ritardavamo, arrivava la letterina di rimprovero per me e mia moglie, dato che anche lei si era affezionata a questa ormai vecchia signora.

Abitava a Trieste ma svernava a "Gorizia la santa" ed un giorno, recatomi in quella città per servizio e quindi indossando l'uniforme, andai a farle visita e la invitai a fare una passeggiata. E noto che Gorizia sia sede di molti raduni di ex combattenti ed i cortei si susseguono abbastanza frequentemente. Quel giorno sono stato testimone di un episodio degno di De Amicis: accettato l'invito, e dopo essersi sistemata la immancabile strisciolina di velluto intorno al collo, uscimmo. Nel corso della città incontrammo uno dei tanti cortei con gagliardetti e bandiere e lei mi si strinse tanto forte che la sentii vibrare come una corda di violino tanto era grande la sua commozione scaturita dal suo alto senso patriottico. Devo dire che tale sentimento imperava nella maggior parte delle donne triestine.

Il giorno seguente iniziai a volare anch'io: è stato meraviglioso! Indossato il paracadute ed il grosso casco di sughero rivestito di pelle seguii, con tutta la mia attenzione i suggerimenti del mio istruttore che insistette molto di stare leggero sui comandi. Salii sul veivolo AS I aprendo una piccola portiera come quella di una spider e attesi in ansia il mio battesimo del volo.

Dopo alcuni metri di rullaggio decollammo ed io mi sentii una rondine con i polmoni insufficienti a contenere l'aria che respiravo, tanta era l'emozione. Intanto l'istruttore durante il giro di campo mi indicava i punti di riferimento e la quota che avrei dovuto mantenere per un buon avvicinamento al campo di atterraggio. Non ho mai toccato i comandi. Finito di volare, l'istruttore radunò la squadra e dopo essersi lamentato del comportamento in volo degli altri disse che l'unico a diventare cacciatore sarei stato io.

L'affermazione mi meravigliò e mi rese perplesso; stare leggero sui comandi è una cosa ma non toccarli affatto è un'altra e lui avrebbe dovuto accorgersene.

Il giorno seguente non toccai i comandi e alla fine del volo mi rivolse ancora i suoi complimenti e così, dato il mio carattere un po' fatalista, continuai a non toccarli per tutti i voli successivi e mi limitai a seguire attentamente le manovre che faceva specialmente in atterraggio.

Al compimento delle due ore e quaranta minuti di volo, mi accompagnò dal comandante della scuola per dirgli che ero pronto per il decollo. Il comandante era un capitano piuttosto vecchiotto per i gradi che rivestiva e non sapemmo la sua provenienza mentre eravamo a conoscenza di quella del nostro istruttore: aveva partecipato alla guerra 1915/18 con il grado di sergente pilota e fu richiamato in servizio col grado di sottotenente dopo essere stato a casa diverso tempo.

Per fortuna il capitano, sentito le ore di volo che aveva effettuato (o che avrei dovuto aver fatto), disse che era troppo presto per farmi decollare e prima di provare se ero pronto avrei dovuto raggiungere almeno le quattro ore di doppio comando. A questo punto decisi di non toccare i comandi durante il giro di campo dato che mi sembrava tanto facile, e di prenderli prima dell'ultima virata necessaria per l'allineamento al campo e successivo atterraggio. Successe un finimondo! L'istruttore cominciò a tirare delle scarpate alla pedaliera, a effettuare delle brusche ed orribili virate in cabrata ed in picchiata e il tutto a quota bassissima.

E stata una delle più grosse paure che ho avuto in tanti anni di volo effettuate con una trentina di aerei diversi.

Alla fine del volo mi aggredì gridandomi che ero come e peggio degli altri e che volevo ammazzarlo. Non mi restava che presentarmi al capitano e spiegare quello che stava accadendo in seno alla nostra squadra. Mi ascoltò con molta calma e quando ebbi finito di esprimere le nostre preoccupazioni mi disse che dovevamo stare tranquilli per la nostra sicurezza, che era un bravo pilota, buono, che dovevamo comprenderlo perché stava passando un periodo di non buona salute. Anche altri istruttori ci dissero le stesse cose ma subito dopo la guerra fu congedato perché affetto da manie di persecuzione.

Diventai Pilota Militare e fui mandato in licenza in attesa di nomina e assegnazione al reparto per il quale si potevano scegliere tre sedi. Chiesi Gorizia-Udine-Gorizia e la mia scelta fu giudicata con senso umoristico dal Comandante della Scuola che mi rivolse anche qualche frase di elogio.

Dopo pochi giorni arrivò la mia destinazione al glorioso 4°Stormo C.T. Francesco Baracca con sede a Gorizia. Non so esprimere la mia grande gioia nell'apprendere la notizia, tant'è vero che non riuscii a prendere sonno tutta la notte. Mi alzai molto presto al mattino e, preso il bagaglio pronto da vari giorni, raggiunsi la sede tanto desiderata che mi regalò tanti giorni di felicità.

Quando arrivai in aeroporto, ricevuto da colleghi e superiori, ebbi subito l'impressione di essere entrato in un ambiente meraviglioso.

La piccola cerimonia del mio giuramento si svolse in maniera molto semplice, non come mi sarei aspettato. Al corso ci avevano raccomandato di addestrarci a sfoderare energicamente la sciabola in modo da afferrarla in volo per la lama e porgere l'elsa al Comandante; niente di tutto questo! Il colonnello mi disse bonariamente di posarla sulla scrivania con l'elsa rivolta verso di lui perché le acrobazie si dovevano fare in volo e non in ufficio. Lessi il giuramento in presenza di altri ufficiali, salutai la Bandiera con un perfetto "attenti" battendo quei tacchi che avevo martoriato per imparare a farli risuonare e diventai dello Stormo.

La bevuta al circolo mi costò quasi lo stipendio ma erano soldi ben spesi.

Il saluto degli amici quando arrivò l'ordine della mia partenza per la Spagna avvenne in un clima molto affettuoso e quando espressi il pensiero di dover noleggiare un automezzo per il trasporto del mio grosso baule, uno dei miei colleghi si offrì spontaneamente dicendomi: "Ti porto io con la mia leona" ; si trattava di una vecchia e robusta Ford. La sua robustezza la dimostrò all'uscita dell'aeroporto che senza le segnalazioni del moviere era pericolosa a causa di una grossa siepe che toglieva la visibilità per l'immissione sulla strada statale; difatti fummo investiti da un'auto.

Non riportammo gravi danni, soltanto delle piccole ammaccature.

A Trieste i saluti furono più complicati e faticosi per le visite a parenti ed amici e conseguenti libagioni in special modo quelle preparate dagli amici alla stazione. I treni avevano ancora la terza classe e la prima, che costava abbastanza era poco utilizzata, per cui trovai uno scompartimento tutto per me. Il viaggio era lungo, ero stanco, la testa mi girava per le troppe libagioni e l'esperienza fatta in viaggi precedenti mi suggerì di infilare il pigiama e mettermi a dormire. Nei pressi di Mestre fui svegliato da un grosso colpo alla testa; il mio vagone aveva deragliato ed ero uscito dal finestrino con l'aiuto di un ferroviere che mi disse che circa due chilometri più avanti avrei trovato un altro treno per proseguire. In pigiama e pantofole e con tutto il bagaglio feci il non comodo percorso lungo la linea ferroviaria e, ritrovato un altro scompartimento vuoto, ripresi a dormire.

Al Comando Tappa di Genova mi consegnarono un foglio con tutte le informazioni necessarie e due ordini drastici: non portare soldi a bordo e non parlare con nessuno; obbedii e inviai i soldi a casa fino all'ultimo centesimo.

A Siviglia fummo ricevuti da un ufficiale che ci accompagnò in ufficio a ritirare una buona somma di denaro e poi in un lussuoso albergo per sostare alcuni giorni necessari per confezionarci, su misura, le uniformi della Aviazione Legionaria Italiana.

Passammo delle giornate abbastanza piacevoli; l'albergo era confortevole, la tavola ottima, il Carlos Primero buono e le ragazze del night club belle e generose, però l'ansia di raggiungere il reparto mi perseguitava.

Durante la terza missione dovetti registrare il primo degli incidenti di volo che mi sono capitati: la perlustrazione che dovevamo fare si stava svolgendo tranquillamente quando il mio motore incominciò a vibrare e le sollecitazioni sempre in aumento diventarono insopportabili tanto che decisi di lanciarmi col paracadute. Non mi lanciai perché con l'ultimo scossone partì l'elica ed il volo divenne di una tale bellezza che mi fece commettere un grave errore.

Senza motore dovevo tenere un assetto di picchiata per mantenere la velocità di sostentamento ma il volo mi inebriò; mi sentivo un'aquila e con gaudio mi misi ad effettuare delle virate in picchiata con relativa cabrata ma intanto perdevo quota e non mi preoccupai di osservare il terreno collinoso per cercare un posto dove tentare un atterraggio di fortuna. A pochi metri da terra mi resi conto della superficialità commessa e cercai un posto per mettere le ruote anche se in ritardo. Trovai una valletta e dopo aver bloccato i freni iniziai a planare con velocità ridottissima perché lo spazio era veramente poco e l'atterraggio risultò piuttosto pesante. Non recai danno al mio CR32 e ciò mi rese ancor più contento di quanto lo fossi stato dopo aver toccato terra. Mi soccorsero dei militari italiani ed il loro Comandante mi fece accompagnare al mio Gruppo con una camionetta.

Il primo combattimento è stato quello che mi ha emozionato in maniera particolare: dal calderone (così chiamavamo la fitta giostra formata dai nostri velivoli e quelli nemici) si staccò un Curtis e lo inseguii immediatamente; quando fui a portata di tiro portai le dita sul grilletto delle mitragliatrici ma non riuscii a sparare. Mi faceva tanta pena quel pilota che non sapeva difendersi, faceva delle virate troppo dolci per essere in combattimento e sarebbe stato facile abbatterlo ma non mi decidevo a sparare. Mentre stavo facendo queste considerazioni mi presi una bella mitragliata da parte di un suo collega e mi inferocii; sparai e con pochi colpi lo feci precipitare. Pur essendo in stato morboso di aggressività lo seguii fino a quando si schiantò al suolo e la mano mi scappò istintivamente sulla fronte in segno di saluto militare.

Su questo campo ebbi il mio secondo incidente di volo; ero a capo di una formazione di tre aerei dopo quella del Comandante di Squadriglia e combinai ancora una fesseria. Si atterrava quasi sempre in formazione di Squadriglia ed io mi ero portato in ala alla sua pattuglietta, come consuetudine. Il meraviglioso CR 32 aveva anche un difetto: nell'ultima fase del planè bisognava portarlo in assetto di cabrata per smaltire velocità e la posizione comportava lo svantaggio di non vedere più il terreno di atterraggio.

Tale inconveniente e la necessità di dover tener d'occhio la pattuglia che mi precedeva, non mi permisero di vedere una fossa che gli spagnoli avevano scavato per collocare una mitragliatrice antiaerea. I miei gregari atterrarono regolarmente mentre io toccai il terreno proprio sui bordi ditale fossa lasciandoci il carrello e subendo una violenta capottata.

Stavo salutando gli amici quando fui chiamato dal Comandante di gruppo e pensai che volesse salutarmi, invece mi chiese di portare in volo il nuovo arrivato come secondo gregario. "Non mi lascia in pace" mi disse "mi tormenta continuamente con preghiere di portarlo in volo e voglio approfittare di te per accontentarlo e ti chiedo di aderire in nome della nostra reciproca stima e fiducia". Accettai di buon grado, corsi alla baracca, mi tolsi la giacca e cravatta dell'abito borghese che già indossavo e raggiunsi la linea di volo. Il mio aereo era già pronto, indossai in fretta il paracadute, e con il secondo gregario, mi accostai al leader. Già in partenza dimostrò di non avere attitudine ad essere un buon pilota da caccia; mi si avvicinò diverse volte pericolosamente ma gli errori più gravi doveva commetterli più tardi. La formazione che si doveva tenere in volo era quella di permettere a quasi tutti i piloti di scrutare il territorio nemico e quindi se questo si trovava sulla sinistra si doveva volare in ala destra, tranne pochi esperti sulla sinistra per eventuali sorprese dalla parte amica e viceversa quando il nemico era sulla destra. Devo precisare che il pilota da caccia usa la pedaliera soltanto in rullaggio e per compiere figure acrobatiche e le virate le compie con l'ausilio degli alettoni e della cloche, mentre il bombardiere con l'aereo più pesante non deve, in linea generale, inclinare eccessivamente l'aereo ed è costretto ad usare il piede. Ecco perché il mio secondo, usando la pedaliera perdeva quota ad ogni virata necessaria per la trasformazione da ala ad ala ed io dovevo aspettarlo per riportarlo in formazione. Gli facevo segno con la mano quando doveva cambiare la posizione e tutte le volte che mi passava sotto la fusoliera era per un brivido. All'ultima virata per il rientro non mi passò sotto ma mi investì e con l'elica mi tagliò letteralmente il terminale della fusoliera e con essa persi anche i piani di coda e mentre stavo slacciando le cinture di sicurezza fui catapultato in seguito alla brutta posizione che assunse il velivolo. Senza piani di coda e con tutto il peso del motore e l'attrezzatura posta nella parte anteriore, l'aereo assunse immediatamente la posizione perpendicolare al terreno, che noi chiamiamo scampanata, e fui scaraventato nell'aria. Gli aerei moderni sono dotati di seggiolini eiettabili provvisti di sistema di apertura automatica del paracadute. Prima di averli in dotazione, dovevamo agganciare un moschettone all'aereo che, in caso di lancio, svolgeva una fune lunga otto metri per azionare l'apertura del paracadute ad una distanza di sicurezza, inoltre, ai tempi della guerra di Spagna, il paracadute non era provvisto dei cosciali, ed era necessario stringere forte la cinghia che cingeva il corpo. Soltanto più tardi, quando un mio collega, lanciandosi, si è sfilato sfracellandosi al suolo i velivoli sono stati muniti di cosciali, cinghie che avvolgono le coscie evitando tale pericolo.

Stavo precipitando e mi accorsi di non aver agganciato il moschettone; per la premura di salire a bordo causa l'imminente scadenza dell'orario di decollo non mi strinsi bene la cintura del paracadute. Lo strappo di apertura fu abbastanza forte e la cinghia mi si portò sotto le ascelle rompendomi due costole.

Eravamo in territorio nemico ed il Comandante, lasciando il compito di guidare la formazione verso casa al capo della seconda pattuglia, si diresse su di me e con passaggi radenti al mio ombrellone tentò, con la sua scia, di spingermi verso la terra amica. La discesa discretamente lenta e la quota di lancio abbastanza alta mi consentirono di studiare il terreno per tentare di oltrepassare le linee. Mi trovavo non distante dalla verticale del fiume Ebro e a qualche chilometro più a Sud c'era la città di Tortosa ormai in mano ai falangisti. Questo sarebbe stato il mio obiettivo: mi sarei nascosto e di notte non mi sarebbe stato difficile raggiungerla. Mentre scendevo, occupato a scegliere un itinerario che mi permettesse di seguirlo senza essere intercettato, sbattei contro la pendice impervia di una collina.

Seppi a fine conflitto che durante il briefing il mio gregario dichiarò che ero stato io ad investirlo e fu steso a terra da un pugno in testa infertogli dal nostro capocalotta che si trovava alle sue spalle.

La mia brandina era in un posto infelice: a circa un metro era stato praticato un foro di circa cinquanta cm. che serviva ai condannati a morte per scanicarsi per l'ultima volta.

Avevano anche la possibilità di bere acqua che sgorgava da un rubinetto che le guardie aprivano in quelle occasioni mentre in altre diventava un nido di topi, che ogni tanto venivano a trovarci; le cimici e specialmente i pidocchi erano onnipresenti.

Noi potevamo servirci di due latrine poste a fianco del rubinetto che veniva chiuso quando i condannati a morte entravano nelle loro celle. A noi era proibito usufruire del rubinetto ma le latrine, che ci servivano molto poco in quanto non mangiavamo quasi niente, ci davano la possibilità di raccogliere quella piccola parte di acqua che gocciolava dal tubo di rifornimento delle cassette dello sciacquone.

Il 10 dicembre, ricorrenza della nostra patrona, la Madonna di Loreto, giunse il maggiore nostro inquisitore: ci fece inquadrare nella navata principale e scandì il nome degli italiani più anziani di prigionia, li fece uscire dai ranghi e accompagnare fuori dalla chiesa. Tra tutti i pensieri che ci passavano per la mente c'era anche quello di non vedere più i nostri quattordici compagni. Il maggiore ci rasserenò quando, rientrato, ci disse che sarebbero stati oggetto di uno scambio di prigionieri ma commise la grande ingiustizia di non permetterci di parlare con i partenti per dare i nostri indirizzi e portare notizie ai nostri cari che non sapevano se eravamo vivi o morti. Le notizie le avrebbero avute ugualmente ma con il ritardo delle necessarie ricerche. I miei genitori furono informati prestissimo; il sergente istriano che offrì il pane anche per me, prima di andare a casa si fermò a Trieste per informare i miei genitori, dimostrando ancora l'animo generosissimo.

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I franchisti continuavano ad avanzare. Quando ci trasferimmo sentivamo già da qualche giorno il rombo dei cannoni e la nostra speranza di essere liberati entro breve tempo ci rinfrancava. Ci portarono sempre più ad est e precisamente nell'aeroporto di Figueras che dista pochi chilometri dalla catena dei Pirenei. Le condizioni non migliorarono; ci rinchiusero in due per cella, trovammo però branda, lenzuola e cuscino ed era un grosso vantaggio coricarsi nudi per non essere mangiati dai pidocchi. Lo svantaggio era rappresentato dalla poca disponibilità dell'acqua, le poche sigarette e il dover stare tutto il giorno soli, in due, senza poter scambiare parola con gli altri. Gli avieri erano dei bravi ragazzi e accorrevano sollecitamente quando bussavamo alla porta della cella.

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Il tenente aveva già avuto sentore che qualcuno voleva fucilarci; si premunì e quando arrivarono gli anarchici per farci scavare la fossa, radunò tutti gli avieri, muniti di fucili e bombe a mano, li affrontò e li fece allontanare.

Il 5 febbraio ci avvisarono di non svestirci per essere pronti a fuggire e il mio compagno di cella che è stato sempre vicino a me mi consegnò un chiodo lungo sette centimetri dicendomi: "Tienilo tu che sei più forte, ci difenderemo!". In tanto tempo che siamo stati assieme e con la poca possibilità di nascondere qualcosa non mi accorsi che teneva questa "terribile arma . L'ansia cresceva di ora in ora e nessuno ci diceva nulla, ma finalmente il giorno 6, all'imbrunire, ci aprirono le porte e, raccomandandoci il massimo silenzio, ci fecero letteralmente stipare in un camion che ci portò ai piedi dei Pirenei. Fortunatamente durante la salita gli avieri trovarono in un camion rovesciato in una scarpata un sacco di farina di castagne che divorammo in pochi minuti. La marcia era lenta, le nostre forze erano piuttosto scarse e ad una certa quota ci fermammo per riposare.

Dopo varie telefonate e telegrammi partimmo per Ventimiglia dove ci attendeva nientemeno che un Maggiore, non so se pilota o meno; c'erano anche due funzionari della Fiat, dato che il CR era prodotto da loro, per darci il benvenuto e offrirci vantaggiose condizioni per l'acquisto di una loro automobile.

Il viaggio Ventimiglia-Roma lo facemmo quasi tutto nel vagone ristorante, grazie alla benevolenza del personale addetto. Ci avevano prenotato cabine letto doppie ma pochi le usarono.
 

La dichiarazione di guerra ci colse quando l'altro Gruppo dello Stormo era già partito per l'Africa settentrionale. Noi partimmo per Mirafiori per operare sul fronte occidentale. Ci fermammo pochi giorni e ci trasferimmo in Sicilia per operare sul cielo di Malta.
 

Partimmo poi per Bengasi dove sostammo per alcuni giorni per una modifica alle graffette delle mitragliatrici in quanto la sabbia poteva dar luogo ad inceppamenti. I lavori si susseguivano a turno, Squadriglia dopo Squadriglia e la prima a raggiungere il fronte ebbe un triste esordio: fu attaccata in fase di decollo da una formazione nemica e subì dolorose perdite.

Da El Adem (a pochi chilometri da Tobruc) andavamo in volo con serenità perché guidati da un uomo capace e coraggioso; era sempre lui il primo, anche se le sue condizioni fisiche menomate da molteplici trasfusioni di sangue, lo costringevano molte sere a letto colpito da febbre. Non si andava quasi mai in volo con tutto lo Stormo ma una mattina all'alba partimmo tutti e raggiungemmo una quota relativamente alta. Non avevamo le maschere per l'ossigeno e usavamo un bocchino che funzionava piuttosto male e talvolta qualcuno veniva colpito da anossia più o meno leggera da procurare uno stato confusionale che spariva dopo aver perso qualche centinaio di metri di quota.

Il 1° novembre persi il più caro dei miei gregari in un duro combattimento. Eravamo in volo con tutto il Gruppo e le tre Squadriglie erano scaglionate in quota: la prima a bassa quota, per la scorta diretta ad un ricognitore, la mia a tremila metri e la terza più alta. La Squadriglia più alta aveva già ingaggiato combattimento e vidi un nostro aereo in picchiata quasi verticale (candela) inseguito da un Gloster; mi rovesciai violentemente tanto che i miei gregari non furono in grado di seguirmi. Arrivato a distanza di tiro potevo sparare all'inseguitore ma c'era il pericolo di colpire anche il nostro compagno; non potevo guardarmi in giro perché la mia attenzione era diretta a collimare il nemico al momento giusto e in direzione di sicurezza. Fui attaccato da due Gloster e la prima sventagliata mi portò via l'elica, così senza motore dovetti giostrare soltanto per difendermi; violente cabrate in candela, virate, rovesciamenti a vite non sono stati sufficienti a non farmi colpire ancora ma per fortuna non in parti vitali. Persa tutta la quota atterrai in qualche maniera. Gli inglesi che avevano smesso di spararmi già quando ero in fase di planata mi sorvolorano salutandomi, agitando le mani.

Ero nella cosiddetta zona di nessuno ma in realtà era loro; scorazzavano in lungo e in largo con le loro autoblindo. Tentai di incendiare l'aeroplano ma non vi riuscii. Esperienze fatte da colleghi mi consigliarono di portare via il paracadute e utilizzarlo, in caso di necessità, per fare segnalazioni per eventuali ricerche in mio favore, usarlo per fasciature in caso di distorsioni o punture di insetti. Era pomeriggio inoltrato ed il sole, in fase calante, mi fu utile per l'orientamento; le difficoltà sorsero al suo tramonto. Vedevo fari di automezzi che probabilmente, da segnalazione di due piloti che mi avevano abbattuto, avevano ricevuto l'ordine di perlustrare la zona e catturarmi. Le mie conoscenze di astronomia sono molto scarse ma miracolosamente mi ricordai che un amico mi disse che in quel periodo, la linea immaginaria che unisce Sino e Venere segna la direzione est-ovest. La lezione di astronomia mi fu utilissima: tutte le volte che scorgevo fari di automezzi dovevo tuffarmi per non farmi vedere e tutte le volte che mi rialzavo, se non avessi avuto l'ausilio delle stelle mi sarei diretto istintivamente in tutt'altra direzione. Camminavo e correvo da parecchio tempo quando inciampai su un filo e sicuro che si trattasse di una linea telefonica tra due nostre postazioni me lo misi all'interno del gomito e lo seguii puntando a nord.

"Altolà" sentii finalmente intimarmi: risposi e caddi stremato. Per tutto il tempo che durò la fuga non avevo mai sentito stanchezza, fame, sete o voglia di fumare; fu proprio la fiamma del mio accendisigari che segnalò la mia posizione ad un tenente che si avvicinò rapidamente. Sentito il mio racconto mi chiese un documento che io non avevo e diede ordine alle guardie di arrestarmi. Mi rivolse l'invito ad alzarmi ma non riuscii ad accontentarlo: gli chiesi di chiamarmi un suo superiore; chiesi di farmi aiutare dalle guardie e sentito chi ero e perché ero là mi fece accompagnare in una tenda. Ero arrivato in un ospedale da campo. Voleva curarmi le graffiature del viso che mi ero procurato tuffandomi nella sterpaglia ma lo fermai e gli domandai di guardarmi prima i piedi dato che mi facevano più male. Calzavo degli stivaletti un po' troppo grandi che col movimento mi crearono delle enormi vesciche su tutta la pianta del piede.

Si fece giorno e un maggiore, che aveva chiesto l'autorizzazione, mi fece accompagnare in una sede di uno Stormo più avanzato del nostro. Da questa base raggiunsi la mia con una Caprona (CA 33 addetto ai trasporti) pilotata da un collega caro e simpatico con cui ci ritrovammo dopo qualche anno nello stesso reparto dove diventammo molto amici.

Allo Stormo non avevano avuto notizie; mancavamo in tre e sapevano soltanto, perché visto, che un sergente si era lanciato con il paracadute. Avevano visto anche un nostro velivolo sfracellarsi dopo un furioso combattimento e pensarono che il pilota fossi io perché l'altro, il mio caro gregario, era troppo giovane ed inesperto per tenere a bada i tre nemici. L'incontro con il mio Comandante fu tragicomico: mi recai nella sua camera e lui, Gamba di Ferro, mi aspettava sulla soglia e spiccando un salto dai tre gradini che ci dividevano, mi rovinò addosso; io con i miei labili sostegni non riuscii a sostenerlo e finimmo a terra ma abbracciati. Con questo episodio ebbe fine il mio quinto incidente di volo.

Mi fu assegnato il compito di comandare una Squadniglia. Facevo la spola tra Udine e Gorizia ed un giorno viaggiai con il pittore Crali che aveva ottenuto l'autorizzazione ad essere portato in volo da noi per provare le sensazioni visive date da voli acrobatici che poi raffigurò su tela. Si recava a Udine per una riunione di artisti presieduta da Filippo Maninetti, maggiore rappresentante del movimento futurista, e mi chiese di raccontargli l'avventura del mio lancio col paracadute, per dipingerla.