VINCENZO PATRIARCA, AQUILA LEGIONARIA
DEL BRONX
Otto settimane dopo la rivolta dei generali
spagnoli del 17 luglio 1936 in Marocco contro il governo repubblicano, l’armata
d’Africa che risaliva la penisola al comando di Franco si trovava a
quaranta chilometri da Toledo e ottanta da Madrid e avanzava
incontenibile sotto la copertura della sedicente aviazione del Tercio, la
legione straniera spagnola, formata essenzialmente da volontari fascisti
e nazisti che pilotavano aerei italiani e tedeschi.
La mattina del 13 settembre tre caccia Fiat
CR.32 dell’aviazione legionaria, ai comandi del capitano spagnolo Joaquín
García Morato e dei sergenti della Regia Aeronautica italiana Boccolari
e Giri (nomi di copertura rispettivamente di Vincenzo Patriarca e Gian Lino
Baschirotto), decollavano dall’aeroporto di Cáceres per una missione
di pattugliamento in territorio repubblicano sul fronte di Talavera de la
Reina. Al rientro sorpresero dall’alto due bombardieri nemici scortati da
tre caccia e li attaccarono . Il combattimento volse a favore
dei legionari, che misero in fuga i bombardieri e abbatterono i caccia di
scorta. Durante il duello acrobatico l’aereo di Boccolari urtò l’avversario
e divenne ingovernabile e mentre il repubblicano si schiantava al suolo col
suo velivolo, l’italiano si lanciava con il paracadute toccando terra all’interno
delle trincee nemiche. Catturato da miliziani combattenti Boccolari evitò
il linciaggio – anche perché si proclamò cittadino americano
–; dopo essere stato un po’ strapazzato, fu portato in macchina al comando
di settore a Santa Olalla e interrogato dal generale José Asensio
Torrado. Quel giorno al comando si trovava casualmente il corrispondente
dei quotidiani londinesi “Daily Telegraph” e “Observer”, Henry Buckley, che
malgrado non potesse vedere il prigioniero fu il primo giornalista straniero
ad essere informato della cattura del primo pilota italiano dall’inizio della
guerra . Al generale Boccolari dichiarò di chiamarsi in
realtà Joseph Vincent “Vincenzo” Patriarca e di essere americano;
all’alto ufficiale bastò un breve colloquio per rendersi conto che
il prigioniero poteva essere utilizzato con profitto per scopi propagandistici
e subito lo fece trasferire a Madrid presso il ministero della Marina e dell’Aria
occupato da una settimana dal socialista Indalecio Prieto. Poco dopo Asensio
incontrò Pietro Nenni, in visita ai fronti di battaglia e che il giorno
16 avrebbe raccolto la salma di Fernando De Rosa, e raccontandogli di Patriarca
disse preoccupato: “Finché non avremo un’aviazione e dell’artiglieria,
c’è poco da fare” .
Nella capitale, intanto, era giunta la voce
della cattura e nel primo pomeriggio l’automobile dei miliziani entrò
nel cortile del ministero circondata da una folla ostile. Patriarca venne
rinchiuso in un vano sotterraneo, mentre ai piani superiori le autorità
concertavano l’operazione di propaganda. La mattina seguente il prigioniero
fu condotto in una sala del ministero al cospetto di alcuni ufficiali e di
civili “dall’aspetto autorevole” per il primo interrogatorio formale. Nelle
sue memorie Patriarca scrive che ebbe un battibecco con Pietro Nenni – il
primo che gli rivolse la parola –, ma non possediamo la versione del leader
socialista; di certo il prigioniero fu interrogato anche dal dottor Berardino
“Dino” Fienga, magnifica figura di antifascista salernitano combattente per
la Repubblica , al quale raccontò di essere figlio di immigrati
italiani, nato a New York il 12 gennaio 1913 e che aveva vissuto nel Bronx
fino al 1933 quando, sfruttando l’opportunità che il governo fascista
offriva agli italiani all’estero di ottenere gratuitamente il brevetto avanzato
di volo, si era trasferito in Italia entrando in seguito nella Regia Aeronautica.
Già volontario nella guerra d’Etiopia, nell’agosto precedente aveva
raggiunto il Marocco spagnolo e si era arruolato per combattere nel Tercio.
Scrive Patriarca che Prieto – dubitando che fosse realmente un americano
– lo fece interrogare da un ufficiale di marina padrone della lingua inglese,
finché “resosi conto che non vo[levo] o non po[tevo] fornire loro
informazioni utili il ministro ordin[ò] che ven[issi] riportato in
cella”. In verità come vedremo le “informazioni utili” non mancarono.
Il 15 settembre il ministro degli Esteri
Julio Álvarez del Vayo consegnò all’incaricato d’Affari italiano
una nota di protesta nella quale venivano elencate le prove “di un aiuto costante
che consiste nella fornitura [ai ribelli] di armi, munizioni e uomini inviati
dall’Italia”, l’ultima delle quali precisava che “il 13 settembre fu
abbattuto fra Talavera e Santa Olalla un aereo italiano CR.32, il cui pilota,
il sergente Vincenzo Patriarca, ha rilasciato la dichiarazione che figura
in allegato” . In questo documento , dattiloscritto in lingua italiana
con firma autografa “Pilota Vincenzo Patriarca” in calce, sotto a “Madrid
15 de setiembre de 1.936” , l’interessato dichiarava di aver accettato
– insieme con altri piloti italiani – la proposta di arruolamento di alcuni
ufficiali che aveva conosciuto durante il servizio in Etiopia; si era quindi
imbarcato a Genova con altri piloti, specialisti e aerei smontati
su una nave “che non aveva un nome spagnolo, ma che all’uscita dal porto
alzò bandiera repubblicana” rotta Melilla, nel Marocco spagnolo, che
raggiunsero il 14 agosto. All’aeroporto di Nador tecnici e piloti montarono
gli aerei; li trasferirono a Tetuan e quindi si recarono a Siviglia dove
effettuarono numerose missioni. Alla fine del mese ricevette l’ordine di
trasferirsi a Cáceres con una pattuglia per dare supporto alle truppe
avanzanti sul fronte di Toledo. Durante il volo smarrirono la rotta e atterrarono
in Portogallo, dove ricevettero un aiuto incondizionato per smontare i tre
velivoli e trasportarli in autocarro a Cáceres.
Nella sua deposizione Patriarca fu prodigo
di dettagli: fece nomi e cognomi dei commilitoni; dichiarò di aver
visto nel porto di Genova un carico di benzina e di munizioni destinato ai
ribelli; precisò l’entità del soldo percepito; disse che a
Melilla aveva rifiutato l’invito di assistere alla fucilazione di “un generale
e otto ufficiali” che si erano opposti all’alzamiento. Le informazioni
di carattere militare furono minuziose: all’aeroporto di Cáceres “erano
continuamente in volo due o tre trimotori da bombardamento con scorta di
caccia, ad eccezione dei voli notturni e a grande distanza”; l’aeroporto era
ubicato “due chilometri a est di Cáceres”, privo di cannoni antiaerei
ma con “mitragliatrici antiaeree disposte attorno alla pista”. Ospitava “sei
piloti da caccia e sei da bombardamento tedeschi; sei piloti da caccia e
tre specialisti italiani; quindici o più specialisti tedeschi; sei
caccia Heinkel, tre bombardieri Junkers; nove Fiat CR.32, un Douglas e tre
Bréguet spagnoli”. Patriarca fornì queste e altre analoghe
informazioni sia per l’aeroporto di Cáceres che per quello di Siviglia,
in cui aveva visto “almeno dodici Junkers, apparecchi da trasporto che potevano
essere trasformati in bombardieri, otto o nove piloti e venticinque specialisti
tedeschi, cinque o sei caccia Heinkel […] sei Fiat CR.32, cinque bombardieri
Savoia Marchetti con cinque piloti italiani”.
Ce n’era abbastanza per consentire al governo
repubblicano di effettuare una pubblica denuncia, ma in realtà nelle
cancellerie l’intervento italo-tedesco era un segreto di pulcinella. Per una
curiosa coincidenza il giorno dopo la consegna della nota di protesta citata,
l’ambasciatore degli Stati Uniti veniva informato da tre corrispondenti suoi
connazionali che “l’aviazione dei ribelli consisteva in gran parte d’apparecchi
da bombardamento tedeschi e di caccia italiani, e che nei caffé di
Siviglia avevano visto degli ufficiali tedeschi” , però agli
Usa e alle altre potenze democratiche mancava la volontà politica
di agire.
Patriarca non rimase a lungo nei sotterranei
del ministero; alla fine del mese fu trasferito nottetempo alla caserma Conde
Duque della capitale e rinchiuso in uno sgabuzzino vicino al corpo di guardia.
Nella sua nuova prigione, dopo aver subito una finta fucilazione e avere
riparato una Fiat 509 spider – in una preoccupante altalena di bastone e
carota –, gli venne detto che il ministro Prieto aveva dato ordini per un
trattamento di favore, cui fece seguito la visita in cella di due funzionari
dell’ambasciata Usa, sotto lo sguardo stupito del suo guardiano. Venne spostato
in una cella più confortevole e quotidianamente cominciò a
ricevere i pasti da un incaricato dell’ambasciata; pochi giorni più
tardi lo visitò di persona Eric Wendelin, “terzo segretario dell’ambasciata”
il quale lo assicurò che erano stati attivati i canali diplomatici
per liberarlo e riconsegnarlo agli Usa.
Poco prima del trasferimento alla caserma
Conde Duque, il 25 settembre i noti giornalisti americani Louis Fischer e
Jay Allen, forse in virtù della “loro stretta amicizia con Álvarez
del Vayo e Juan Negrín” , furono autorizzati a intervistare Patriarca.
Fischer, che prese appunti nel suo diario rimasto inedito, gli disse: “Sei
un incosciente e un autentico idiota. Ti sei ficcato in un bel guaio. Il
governo di questo paese ha tutto il diritto di fucilarti. Se ti comporti
come si deve, forse potremo aiutarti” ; Allen, invece, pubblicò
l’intervista il 30 settembre seguente sul “Chicago Daily Tribune” con un
titolo molto eloquente: Ragazzo bombardiere Usa, con le lacrime agli occhi,
racconta una storia di guerra . Il giornalista scrisse che la sua prima
impressione di Patriarca fu quella di “un giovane barbiere americano che
si era imbarcato in una avventata e crudele avventura di guerra ed era finito
male. Giaceva in una cella, con le lacrime agli occhi, forse più in
preda al rimorso che impaurito”. Il prigioniero gli raccontò con enfasi
e spacconeria la storia della sua vita in presenza del sottosegretario all’aeronautica
e di una graziosa stenografa “comunista e molto seria” (sic), che non sembrava
insensibile agli sguardi languidi e prolungati del giovane italoamericano.
Quando Allen gli parlò di Urtubi la sua vanteria venne meno: “Vidi
i suoi occhi riempirsi d’acqua e il suo mento tremare. Lo sconsiderato asso
divenne un ragazzo patetico. Mi afferrò. Le sue mani erano fredde
e umide. ‘Per favore, dite loro che sono americano. Dite loro di rimandarmi
a casa. Voglio uscire da questa…’ Gli ricordai che era un loro nemico e che
gli americani che combattevano per un paese straniero non potevano pretendere
la protezione del governo quando le cose si mettevano male. Gli dissi che
doveva rallegrarsi per non essere stato fucilato. ‘Forse non ti fucileranno
più’, aggiunsi. ‘Credete che io sia spaventato, non è vero?’
disse. ‘Non è così, credetemi. È che mi sento ignobile.
Mi sento come se fossi un criminale. Sono stati tutti gentili con me: dopo
quello che ho fatto!’ ‘Perché l’hai fatto? Ti piace uccidere?’ domandai.
‘No, non mi piace uccidere.’ ‘Allora perché andasti a bombardare i
villaggi in Etiopia?’ ‘Ah, gli etiopi,’ sbuffò, ‘avreste dovuto vedere
cosa fecero ai miei amici che avevano catturato!’” Patriarca affermò
inoltre che aveva cessato di simpatizzare con i ribelli dopo aver assistito
all’esecuzione di civili nel sud della penisola: “Ammazzavano gente ovunque,
tagliando la gola anche ai bambini”. Quando Allen gli fece notare la stella
a cinque punto che sfoggiava sulla tuta di volo, rispose con orgoglio che
gliel’avevano donata “le guardie [mie] amiche” le quali “non agivano da rossi.
Affermavano che stavano combattendo per la loro libertà. Che Franco
tentava di rubargliela”. Egli lo riteneva giusto perché “a Siviglia
gli operai erano fucilati di continuo, una sorta di spettacolo”. A dispetto
della situazione Patriarca non disperava che i repubblicani si convincessero
che non era un loro nemico: “Voi glielo direte, non è vero?” domandò
ad Allen. “Chiedete loro di lasciarmi tornare a casa. Ne ho abbastanza dell’Europa
e dell’avventura. Se mi lasciassero rimpatriare potrei presentarmi ogni settimana
per garanzia al consolato spagnolo di New York. Potrei dare la mia parola
d’onore…ma so che non mi crederanno.” E concluse amaramente l’intervista:
“ A volte gli amici (sic) di qui mi guardano come se fossi un pidocchio.
So bene perché: ho preso quattrini per combattere mentre essi combattono
per la loro libertà e la loro vita […]. Se mi fucilano sento di aver
fatto un grave torto alla mia famiglia. Mio padre ha bisogno di me”. Le ultime
righe di Allen erano intrise di fatalismo: “Suppongo che egli sia salvo.
Ma se qualcosa va storto a Madrid, il cielo aiuti lui e molti altri”.
Mentre Patriarca veniva intervistato dai
due giornalisti americani, dalla tribuna dell’Assemblea della Società
delle nazioni a Ginevra – di fronte a gente poco incline ad ascoltarlo –
Álvarez del Vayo pronunciava un ineccepibile e toccante discorso in
cui denunciava l’intervento straniero nel conflitto fratricida spagnolo in
corso . Prima della seduta del Vayo aveva fatto distribuire con discrezione
alla stampa simpatizzante per la Repubblica, all’esterno del Palazzo, copia
delle note consegnate il precedente giorno 15 ai rappresentanti dei governi
italiano, tedesco e portoghese, ma il loro testo venne pubblicato integralmente
soltanto dal “Journal des Nations” , quotidiano fondato e diretto dall’antifascista
italiano barone Carlo a Prato , che a Ginevra era “l’uomo meglio informato
di tutti su tutto e senza dubbio il più odiato dai fascisti”, ai quali
“fece inghiottire molti rospi e subire molti grandi e piccoli scacchi” ;
a causa del suo deciso appoggio alla Repubblica spagnola fu vittima di una
montatura scandalistica che nel gennaio 1937 lo fece espellere
dalla Svizzera .
L’elevato discorso di del Vayo, destinato
a cadere nel vuoto perché gli uomini di peso all’ascolto erano gli
stessi che avevano creato il Comitato di non intervento, riunitosi per la
prima volta a Londra il 9 settembre, trovò eco anche nel più
importante quotidiano italiano che dedicò ampio spazio all’Assemblea
e riportò in prima pagina: “Il ministro degli Esteri del Governo di
Madrid, Alvarez del Vayo, ha cercato di sostenere che la guerra civile è
stata imposta al suo Governo da ‘un gruppo di generali ribelli’. Sul non
intervento, Alvarez del Vayo ha detto trattarsi di ‘una mostruosità
giuridica’. Egli ha quindi accusato alcune Potenze di aver violato i principî
del non intervento fornendo armi ai nazionali e ha sostenuto che la Lega è
tenuta a intervenire quando si tratta del problema della sicurezza, anche
all’interno di uno Stato. Secondo Del Vayo, la guerra civile che in questo
momento insanguina la Spagna è una ‘vera e propria guerra di religione’”.
Ovviamente il giornale ometteva di dire che il ministro aveva definito “mostruosità
giuridica” la formula del non intervento perché metteva sullo stesso
piano il governo legittimo e i ribelli e che comunque “avrebbe dovuto consistere
nell’ignorare totalmente la situazione interna di un paese, conservando agli
accordi commerciali conclusi in precedenza il loro valore giuridico normale”;
mentre nel virgolettato “vera e propria guerra di religione” condensava arbitrariamente
il seguente brano: “Come nel Sedicesimo secolo l’Europa si stringeva attorno
a due ideali religiosi, cattolicesimo e protestantesimo, oggi si direbbe
che gli uomini si dividano secondo due ideali politici: democrazia e regime
d’oppressione”. Ci piace pensare che questo articolo abbia sollevato lo sdegno
del Vate, che “Dal Vittoriale degli Italiani: nel settembre di Ronchi 26-1936”
mandava “Al Capo del Governo, al Capo d’Italia Benito Mussolini in Roma”
un messaggio manoscritto nel quale fra l’altro scriveva: “O Compagno, non
ti insudiciare nel rivolgerti alla gravedente Cloaca di Ginevra. Irremovibile
sii frenando la tua pacata ilarità” , dimostrando ancora una volta
di mancare del più elementare senso del ridicolo.
La figura di Patriarca salì alla
ribalta diplomatica nella quinta seduta del Comitato plenario del non intervento,
svoltasi al Foreign Office di Londra la mattina del 9 ottobre 1936 per esaminare
le denunce del governo della Spagna repubblicana. Il comunicato ufficiale
della seduta riferiva che “Il delegato italiano [Grandi] dopo aver confutato
e respinto energicamente tutti i punti dei documenti spagnoli che accusavano
il suo Governo, ha dichiarato che quelle asserzioni erano del tutto fantastiche
e prive di ogni fondamento” . Segnatamente alla “deposizione di un certo
Vincenti (sic) Patriarca, preso prigioniero nei pressi di Talavera”, Grandi
– con notevole impudenza – fece notare che egli “era già fuori delle
acque territoriali italiane prima della imposizione dell’embargo. In tutta
la deposizione del Patriarca non c’è un solo elemento o una sola notizia
che si riferisca a una data successiva a quella del 28 agosto [giorno in
cui il governo italiano proclamò un embargo fittizio su tutte le armi
e munizioni dirette alla Spagna]” . Questa volta il quotidiano milanese,
sotto l’eloquente titolo a quattro colonne Le schiaccianti requisitorie italiane
che stroncarono la manovra sovietica a Londra, riportava alla lettera un
ampio stralcio dell’intervento di Grandi, “Vincenti Patriarca” incluso
.
A Madrid, intanto, i funzionari dell’ambasciata
Usa si erano attivati per ottenere il rilascio del prigioniero. Le notizie
di stampa avevano sollevato un notevole interesse nei lettori sulla vicenda
e il 12 ottobre 1936 il segretario di Stato, Cordell Hull, mandava a Wendelin
il seguente telegramma: “L’interesse della pubblica opinione sul caso Patriarca
si allarga di continuo e ci sono pervenuti crescenti, urgenti appelli a suo
favore. Vi incarichiamo perciò, in aggiunta ai passi che avete già
effettuato, di portare il caso Patriarca all’attenzione di Largo Caballero
nel suo ruolo di Primo ministro e ministro della Guerra e di chiedergli assicurazioni
che Patriarca non sarà giustiziato. Potete informarlo che la pubblica
opinione americana condivide il giudizio del proprio governo che le leggi
di guerra internazionalmente riconosciute non sanzionano l’esecuzione dei
prigionieri, e che se Patriarca fosse giustiziato ciò solleverebbe
senza dubbio un’ampia reazione di ostilità nel popolo americano così
ben disposto (sic) nei confronti del governo repubblicano spagnolo.
Abbiamo appena ricevuto un telegramma dal
‘Comitato delle mille madri’ [Committee of One Thousand Mothers] organizzato
per salvare la vita a Patriarca che incita a fare ogni sforzo ‘per trasferirlo
nel carcere di un territorio neutrale e venga presa una immediata decisione
sull’argomento’. Se lo riterrete opportuno potete citare questo appello al
Primo ministro come indicatore dell’opinione pubblica americana” . Non abbiamo
trovato traccia di questo fantomatico “Comitato delle mille madri”, ma è
facilmente intuibile il peso politico che poteva esercitare sul governo la
potente comunità italoamericana.
Wendelin ottenne subito un incontro con
Álvarez del Vayo e il giorno seguente poteva telegrafare al segretario
di Stato che “per riguardo all’interesse manifestato dal governo degli Stati
Uniti Patriarca non sarebbe stato giustiziato”; del Vayo però raccomandava
a Wendelin di considerare questa informazione “strettamente confidenziale
per evitare l’interesse della stampa”. Una fuga di notizie, infatti, avrebbe
reso difficile proteggere il prigioniero “[da]gli sforzi individuali per
ucciderlo dovuti all’accanimento della popolazione contro gli aviatori ribelli”;
assicurava, inoltre, che “Patriarca sarebbe stato trattato con ogni riguardo”
e che “gli avrebbe fatto avere un permesso per consentire all’ambasciata
di mandare gli alimenti adatti per la sua indisposizione intestinale”. In
via del tutto riservata del Vayo anticipò a Wendelin che entro due
settimane avrebbe suggerito a Largo Caballero di trasferire il prigioniero
sotto la custodia dell’ambasciata Usa, per evitare i rischi di una malaugurata
uccisione; si rammaricava di non poterlo fare subito per timore della pubblica
ostilità e anche per l’opposizione di altri membri del governo
. Di certo non era favorevole al rilascio Indalecio Prieto, il quale – come
vedremo – lo avrebbe volentieri visto fucilato.
Il 6 novembre 1936 Wendelin telegrafò
a Cordell Hull che Patriarca era appena arrivato “al sicuro in ambasciata”;
aggiungeva che “non erano state poste condizioni al suo rilascio” e che le
autorità spagnole avevano chiesto il massimo riserbo con la stampa
“per non mettere a repentaglio la sicurezza dell’ambasciata Usa” .
La data e le condizioni del rilascio mostrano
qualche incongruenza. Nelle sue memorie Patriarca scrive che i carcerieri
lo consegnarono a Wendelin il 25 novembre perché il diplomatico gli
ricordò il buon auspicio del giorno del Ringraziamento, e il corrispondente
dell’Associated Press, che viveva nell’ambasciata e godeva della stima e
della confidenza dei funzionari, afferma che Patriarca fu scambiato con un
pilota polacco combattente dell’aviazione repubblicana . Una documentata
saggista, citando fonti d’archivio, scrive che “fu scambiato con un pilota
iugoslavo catturato dai Nazionali” ; comunque siano andate le cose lo scambio
è verosimile poiché un ministro della Repubblica, a guerra
in corso, scriveva: “i ribelli hanno sempre dimostrato un grande interesse
per lo scambio di aviatori prigionieri. E dato che noi abbiamo fornito all’uopo
tutte le facilitazioni possibili, questi sono i soli scambi effettuati con
una certa facilità”; e aggiungeva: “si tratta naturalmente di aviatori
italiani e tedeschi, gli unici che utilizzino: assai di rado cade un aviatore
spagnolo” .
Giunto all’ambasciata Usa Patriarca venne
alloggiato in camera con un fattorino; si adattò subito al nuovo ambiente
e divenne “uno dei più vivaci ospiti dell’ambasciata” .
Avendo recuperato un po’ della sua spavalderia si precipitava in giardino
ogni volta che si svolgeva un combattimento aereo: “indicava molto eccitato
gli errori nelle manovre” ed esclamava che se fosse stato là per aria
“gli avrebbe dato, per Dio, una buona lezione” .
Il 27 novembre Patriarca fu evacuato in
incognito da Madrid e imbarcato con altri profughi americani sull’incrociatore
Usa Raleigh a Valencia . Dopo tre giorni di navigazione e uno scalo
a Barcellona per caricare altri profughi, la nave giunse a Marsiglia. Prima
di sbarcarlo Wendelin gli consegnò il passaporto e trentacinque dollari
raccomandandogli di recarsi con il primo treno all’ambasciata Usa di Parigi,
dove avrebbero predisposto il suo rimpatrio. Da Parigi Patriarca fu mandato
al consolato Usa di Le Havre in attesa dell’imbarco e il console gli domandò
se preferiva attendere il denaro per il viaggio da Washington, oppure se
accettava di essere imbarcato come marinaio; scelse la partenza immediata
sul piroscafo Manhattan e il 10 dicembre arrivò nel porto di New York.
Prima ancora di sbarcare abbracciò il padre, che era salito a bordo
con i piloti dei rimorchiatori, e venne accolto come una star da giornalisti
e fotografi ai quali “denunciò il trattamento che aveva ricevuto dalla
Repubblica spagnola durante la prigionia. Lodò pubblicamente Franco
e assicurò che i ribelli avrebbero ottenuto la vittoria perché
‘rappresentavano il vero popolo spagnolo’ mentre i repubblicani lottavano
‘soltanto per la Russia’. Con sottile ironia dichiarò che ‘non aveva
ancora vissuto abbastanza avventure’ e, poiché ‘fare il barbiere non
era di suo gradimento’, non intendeva usare le forbici nel negozio di suo
padre nel Bronx” .
L’ambiente e le opportunità che lo
accolsero al suo rientro non potevano soddisfare le aspirazioni di un uomo
che dall’adolescenza viveva per volare. Passata la sbornia fugace della notorietà
con interviste e conferenze che non gli davano di che vivere, forte della
sua esperienza di guerra tentò di entrare nell’aviazione militare
Usa, ma gli fu risposto che doveva frequentare il prescritto corso di due
anni. A quel punto decise di ritornare nella Regia Aeronautica italiana e
domandò per lettera l’aiuto del comandante del suo vecchio stormo
di Gorizia. Privo di un lavoro stabile – che forse non gli importava più
di tanto trovare, al di fuori dell’aviazione – continuò ad aiutare
il padre nel negozio per racimolare qualche soldo, ma era una condizione
che lo mortificava. Il suo livello di frustrazione può essere colto
alla fine di una lunga intervista che rilasciò al giornalista Avery
Strakosch e che venne pubblicata in maggio e giugno 1937 sul mensile a larga
tiratura “American Cavalcade”; riproposta di recente in lingua italiana è
curiosamente priva di ogni citazione d’autore e di crediti editoriali
: “E così, sebbene abbia quattro anni di addestramento in due delle
migliori scuole italiane, su un aereo da caccia fra i più moderni
e un’esperienza di disciplina unica per aver combattuto due guerre in un
anno, nel mio Paese non ho diritto neanche a una semplice licenza per il
volo turistico. Secondo la regolamentazione in vigore negli Stati Uniti,
dovrei frequentare nuovamente una scuola di volo e ricominciare daccapo tutto
il corso di pilotaggio. Potrei trovare lavoro come autista, come marinaio
su uno yacht, come verniciatore in qualche cantiere a 70 centesimi l’ora,
ma guadagnare da vivere col lavoro che meglio conosco, cioè il volo,
quello proprio no! ‘Sono stato messo a terra’, come si dice nel gergo aviatorio.
Non vi sono parole più tragiche per un uomo che vive solo per volare!”
Nel luglio 1937 venne convocato dal consolato
italiano a New York dove il console e l’addetto militare – lo stesso che aveva
conosciuto nel 1933 – si fecero raccontare nei dettagli le vicende che aveva
vissuto dopo la cattura in Spagna. Al termine del suo rapporto gli confermarono
che era stato accolto di nuovo nella Regia Aeronautica e gli raccomandarono
di darne notizia soltanto ai suoi genitori. Il 27 luglio 1937, a bordo del
Saturnia, salpò per l’Italia rotta Azzorre, Lisbona, Gibilterra, Algeri
e Napoli dove sbarcò il 3 agosto. Le formalità da espletare,
visita medica e colloqui burocratici al ministero di Roma, furono di breve
durata e tre giorni più tardi venne accolto con calore dai colleghi
del 4° Stormo a Gorizia.
L’entrata dell’Italia in guerra, il 10 giugno
1940, sorprese Patriarca a Torino Caselle dove effettuò missioni di
pattuglia e di scorta ai bombardieri fino all’8 luglio, quando la sua squadriglia
fu trasferita a Treviso e successivamente a Napoli Capodichino. Gli eventi
bellici lo portarono quindi sul fronte albanese dove si ammalò gravemente
di polmonite. Rimpatriato e curato, rifiutò la convalescenza e dopo
un paio di tappe sul territorio nazionale e una sosta in Albania venne inviato
sul fronte russo cadendo nuovamente ammalato. Nel novembre 1941 fu assegnato
alla 303ª Squadriglia “Caccia notturna” di Capodichino e abbatté
un bombardiere inglese pochi giorni prima che i giapponesi attaccassero Pearl
Harbour. La dichiarazione di guerra di Italia, Germania e Giappone agli Usa
sconvolse Patriarca che ora correva il rischio di dover sparare contro
i suoi connazionali. Durante una breve licenza nell’estate del 1942 conobbe
sulla spiaggia di Napoli la ragazza che sarebbe divenuta la compagna della
sua vita e che sposò a fine gennaio del ’43.
Il 19 luglio 1943 centinaia di bombardieri
americani colpivano per la prima volta Roma; la notizia della distruzione
della basilica di San Lorenzo con il papa che si aggirava fra le macerie fece
il giro del mondo e commosse la cristianità. Dal suo esilio messicano
l’ex ministro Prieto commentò il fatto tre giorni più tardi
nell’articolo che abbiamo citato, intitolandolo significativamente Vincenzo
Patriarca. Dopo aver ricostruito con alcune imprecisioni la vicenda spagnola
del pilota egli osserva che “è penoso che le bombe cadano sulla basilica
di San Lorenzo; a me, comunque, impressiona di più che cadano su scuole,
ospedali e orfanotrofi”, poi – ignorando che il comando alla fine del 1942
aveva allontanato Patriarca dalla zona di combattimento a causa della sua
imbarazzante condizione di italoamericano –, conclude: “Se i nordamericani
dovessero abbattere un aereo italiano e catturare il pilota, provino a domandargli
se si chiama Vincenzo Patriarca. Allo stesso modo in cui tornò a bombardare
la Spagna, dopo essere stato liberato a Madrid, è possibile che adesso
combatta con i suoi correligionari fascisti contro la bandiera che sette
anni fa sventolò per salvare la pelle. Se lo trovano lo fucilino:
Ha la stoffa del traditore” .
L’8 settembre colse Patriarca all’aeroporto
di Treviso, occupato il giorno 12 dai tedeschi; al colonnello della Luftwaffe
che gli proponeva di combattere nel suo schieramento rispose che di guerra
ne aveva avuto abbastanza e fu posto agli arresti. Il seguente tentativo di
fuga naufragò e Patriarca fu deportato in Polonia, poi a Pillau sul
mar Baltico. Per una serie di romanzesche casualità, che egli narra
nelle sue memorie, mediante l’interessamento di Vittorio Mussolini nel gennaio
’44 incontrò al consolato di Berlino Filippo Anfuso che lo fece rientrare
in Italia.
La fortuna lo assistette anche nell’anno
che trascorse nei ranghi della Repubblica sociale e tornato a Napoli, dopo
la fine della guerra, lavorò a Capodichino per tre anni con gli americani
prima di fare domanda di rientro attivo nell’aeronautica italiana, un impegno
che svolgerà per altri dieci anni e si concluderà con un po’
di amarezza: “Il 12 gennaio 1959 una comunicazione del Ministero dice che
sarò congedato per raggiunti limiti d’ età. A 46 anni sono
troppo vecchio per poter continuare a volare! Il 12 vado a Capodichino e
mi presento al Comando, sono ricevuto dall’Ufficiale Comandante che cerca
di convincermi a rimanere con mansioni di ufficio : rifiuto. L’Ufficiale aggiunge
qualche bella parola, lo saluto, mi consegna il foglio di congedo. Ritorno
a casa, tolgo l’uniforme, la stendo accuratamente sul letto, mi siedo e la
fisso”.
Luigi Paselli
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