Ricordo bene la mattina
d'estate in cui vidi Marco per l'ultima volta.
Io stavo entrando
nel Comando di Gruppo e lui con il casco ed il cosciale in mano stava uscendo
dalla sala equipaggiamento per recarsi in linea di volo per l'ultimo decollo.
Ricordo bene lo sgomento quando gli Enti del Controllo comunicarono che
c'era stato un incidente e anche come la speranza di un lancio riuscito
ci avesse animato, fino alla conferma definitiva del dramma. Altri incidenti
hanno purtroppo segnato gli anni che ho trascorso nei Reparti di volo e
di ciascuno di coloro che si sono sacrificati conservo nella memoria il
nome e per alcuni, anche la fisionomia, e il loro ricordo ogni volta suscita
un sentimento di dolore e di rammarico.
Ma per Marco è
diverso. Lui era un amico.
L'avevo conosciuto
anni prima quando era stato assegnato al Gruppo trasferito da un altro
Reparto per avvicinarlo alla famiglia, che risiedeva a Porto Èrcole,
dopo un grave lutto che li aveva colpiti. Non c'era voluto molto per apprezzarlo
e per diventarne amico. Era diretto, sincero, ruspante, non le mandava
certo a dire, ma era anche sensibile, generoso, gioviale, intelligentissimo.
Avevamo lavorato bene insieme, trovando subito una completa sintonia. Io
curando il personale specialista e la manutenzione dei velivoli, lui organizzando
e seguendo l'addestramento dei piloti e i programmi di volo prima, e come
comandante di Gruppo, dopo. Avevamo compiti che incrociavano continuamente
le nostre responsabilità. I contatti continui che il lavoro ci imponeva
avevano trasformato ben presto il nostro rapporto in amicizia fra due persone
che si capiscono e si stimano. Il giorno in cui assunse il comando di Gruppo
conobbi i suoi genitori e i suoi fratelli che erano venuti a Grosseto dall'Umbria
per assistere alla cerimonia.
Al termine della parte
ufficiale, prima del pranzo i suoi vollero visitare il Reparto. In uno
shelter, mentre illustravo loro il velivolo, la mamma mi tirò da
parte e mi manifestò tutta la sua paura nel sapere che il figlio
ogni giorno rischiava la vita; pur sapendo che Marco faceva quello che
più l'appassionava non poteva soffocare l'angoscia che ne provava.
La rassicurai come meglio potevo; non era vero che F104 era un aeroplano
più pericoloso degli altri e le statistiche lo dimostravano. "Questo",
le dissi, cercando di rincuorarla "è un aeroplano sicuro. E poi
Marco è talmente bravo che se la saprebbe cavare in ogni circostanza.
Cerchi di non stare in pensiero".
Dopo l'incidente,
come capo Sezione Tecnica, dovetti gestirne le formalità buro-cratiche
di rito e mettermi a disposizione della commissione tecnico formale e di
quella nominata dal sostituto procuratore, incaricate di indagare sulle
cause, cercando di non farmi coinvolgere dai sentimenti che invece erano
sempre pronti a fare capolino e con i quali era diffìcile combattere,
quando senti il magone attanagliarti la gola e gli occhi pungere e vorresti
solo chiuderti in te stesso.
Noi del Gruppo dovemmo
anche pensare a sostenere moralmente e consolare, nei limiti del possibile,
la sua famiglia.
Dopo la sepoltura
stavamo accomiatandoci quando sua madre guardandomi dritto negli occhi,
mi apostrofò in tono brusco: "Eppure lei mi aveva assicurato che
era un aeroplano sicuro! Io le avevo creduto".
Quello fu per me,
credo, il momento più brutto. E non seppi replicare per cercare
di alleviare il suo dolore che si intuiva violento e per cancellare il
senso di colpa che avvertivo per aver detto, quasi un anno prima quelle
parole.
Molta acqua da allora
è passata sotto i ponti, e il tempo, si sa, è medicina universale,
ma ancora quando ripenso a quei giorni, il dolore, la sensazione di vuoto
della sua assenza e il disagio verso quella madre si riaffacciano prepotenti.
Ciao Marco, many happy landìngs nei campi elisi!