Dopo i successi ottenuti
dalla Douglas con il DC3, DC4, DC6 ed il DC7, finisce l’era dei velivoli
di linea con propulsori ad elica. L’ultimo nato, il DC7/B, aveva infatti
raggiunto il massimo delle prestazioni consentite da un velivolo con motori
a scoppio: quattro propulsori a doppia stella, sovralimentati da tre compressori
a turbina montati sullo scarico dei gas che permettevano di raggiungere
grandi potenze. A fronte di tanta sofisticazione si aveva tuttavia un maggiore
incidenza delle avarie. La Douglas inizia la nuova era dei jet commerciali
di linea con il DC8/43, un velivolo quadrimotore con il peso massimo al
decollo di 142.885 kg, velocita’ di crociera di mach .82 e quota massima
di 41.000 ft. Il progetto tiene conto di alcune caratteristiche costruttive
dei precedessori ad elica e le differenze principali sono i quattro motori
a reazione Rolls-Royce Conway Mk509 (8.000 kg di spinta), le ali a freccia
e la linea piu’ “filante”. I motori a reazione, a differenza di quelli
di prima generazione del Caravelle, sono del tipo a “bay-pass”, cioe’ con
due compressori e due turbine coassiali che permettono di “bypassare” una
parte del flusso dell’aria in uscita dal compressore a “bassa pressione”
verso la relativa urbina, ottenendo un aumento del “rendimento propulsivo”.
Altra novita’ rispetto al Caravelle e’ l’adozione dei “reverse” costituiti
dagli “eiettori” anulari scorrevoli comprendenti ciascuno due “conchiglie”
che, arretrando e chiudendosi, invertono la spinta. Il DC8 e’ forse l’unico
velivolo commerciale sul quale era previsto l’utilizzo del reverse (al
minimo) dei due motori interni in caso di discesa d’emergenza. Anche i
tempi di accelerazione dal minimo alla potenza di decollo sono scesi dai
9 secondi del Caravelle, a 6 secondi. L’avviamento dei motori non e’ piu’
con sistema elettrico ma ad aria compressa e pertanto e’ necessaria la
presenza a terra di un potente gruppo motore-compressore. Per i rari casi
di non disponibilita’ a terra del gruppo compressore, e’ utilizzabile un
impianto di bordo, detto “combustor”, che con un complicato sistema genera
la pressione necessaria per l’avviamento del motore N.3. A tal fine, nelle
gambe del carrello principale sono installati due serbatoi contenenti aria
compressa a 3000 psi che, insieme ad una miscela di acqua/metanolo, vengono
inviati al “combustor”. A differenza dei suoi predecessori ad elica, il
DC8 non dispone piu’ del marconista e cio’ grazie al miglioramento delle
prestazioni degli apparati radio a lunga portata in onde corte (HF) che
hanno permesso l’abolizione della “telegrafia”. Tuttavia gli impianti di
bordo sono ancora molto complessi e le operazioni (normal, abnormal and
emergency procedures) devono essere gestite da personale specificatamente
addestrato: il “motorista di bordo”. Rimane operativa anche la figura del
“navigatore”, almeno per le tratte ove le radioassistenze non sono garantite,
vedi oceani, Africa, Estremo Oriente. La gestione dell’impianto carburante
e’ complessa ed il motorista deve effettuare frequenti “travasi” per tenere
sotto controllo i livelli dei serbatoi che influenzano la posizione del
baricentro a causa dell’ala a “freccia”. L’impianto elettrico e’ alimentato
da quattro generatori a 110 Volts e corrente alternata a 400 Hz che per
lavorare in “parallelo” debbono essere “sincronizzati”. L’impianto di pressurizzazione
e’ diverso da quelli attuali: utilizza quattro compressori operanti ad
un elevato numero di giri/minuto e collocati proprio sotto i piloti che
non apprezzano molto questa soluzione. La strumentazione ed i sistemi di
navigazione a “lungo raggio” sono forse quelli che oggi possono essere
interessanti per le nuove generazioni di piloti che non immaginano come
si “navigava” allora. Si era ancora molto lontani dalle prime “piattaforme
inerziali” (INS) comparse all’inizio degli anni ’70 ed ancora piu’ lontani
dai sistemi odierni basati sul GPS. In quegli anni le radioassistenze erano
basate principalmente sui “radiofari” (radio-beacon in classe A1 o A2)
mentre i piu’ “moderni” VOR non erano molto numerosi ed i DME non esistevano
affatto. Pertanto quando ci si inoltrava di meno di un centinaio di miglia
nautiche sui deserti o sugli oceani, i “radio-aiuti”, non erano piu’ ricevibili.
In Atlantico esisteva poco piu’ di una mezza dozzina di navi “stazionarie”
che davano assistenza, su un’apposita frequenza radio VHF, agli aerei che
transitavano nelle loro vicinanze. Su richiesta, identificavano con il
radar gli aerei che ne facevano richiesta e fornivano distanza e rilevamento
magnetico dell’aereo. Poiche’ le navi non riuscivano a mantenere esatta
la loro posizione, fornivano anche lo scostamento “shift” con il quale
si poteva fare il “punto” esatto sulla carta di navigazione di bordo. Gli
addetti al radar dovevano stare in missione in pieno oceano per molti mesi
e per alleviare la monotonia del loro lavoro a volte era consuetudine far
parlare alla radio una hostess. Uno strumento di navigazione considerato
non molto affidabile era il “doppler radar” che rilevava la velocita’ effettiva
dell’aereo rispetto al suolo (Ground Speed) e la “deriva” (shift). Con
questi due dati e con l’uso del regolo Jepsen, si poteva calcolare la velocita’
del vento. Il “doppler” aveva diverse limitazioni, non funzionava bene
se il mare era calmo e spesso dava segnali errati. Un sistema di navigazione
alquanto obsoleto era il “Consol” costituito da un ricevitore sulle “onde
lunghe” che permetteva di ricevere “in cuffia” una serie di “punti e righe”,
trasmesse da una stazione in prossimita’ delle coste dell’oceano. La portata
era abbastanza buona, oltre le 150 miglia, e permetteva di effettuare il
"rilevamento" della stazione che trasmetteva dalle coste del continente,
contando i “punti e righe”, la cui somma doveva essere uguale a 60. Questo
sistema di trasmissione era stato ideato pochi decenni prima per
essere utilizzato dai sommergibili tedeschi negli attacchi ai convogli
alleati in Atlantico. Lo strumento piu’ affidabile e preciso di bordo ma
dall’uso limitato a poche zone come il Nord Atlantico, era il “Loran”,
un ricevitore a “onde lunghe” che rilevava i segnali di due stazioni che
trasmettevano un segnale simultaneo inviato dalla costa statunitense e
da quella europea. Misurando con un oscilloscopio la differenza in millisecondi
tra i due segnali, si poteva tracciare sulla carta la “iperbole” sulla
quale si trovava l’aeromobile. Con un secondo rilevamento ottenuto sintonizzandosi
su altre due stazioni Loran, si “incrociavano” le iperboli e si otteneva
il “punto”. Lo strumento di bordo piu’ “storico” ma ancora valido era il
“sestante”. Si trattava di un sestante molto diverso da quelli usati in
Marina poiche’ doveva essere manovrato dall’interno del velivolo utilizzando
un piccolo foro nella cabina di pilotaggio, dal quale sporgeva come un
“periscopio”. Il navigatore per utilizzare questo strumento doveva prima
seguire un corso di navigazione astronomica che durava diversi giorni e
superare un esame ed una prova pratica in linea. Tutti i Primi Ufficiali
(secondi piloti su velivoli da Lungo Raggio) per essere abilitati come
tali, dovevano aver superato detto corso ed aver volato almeno un mese
come navigatori “titolari”. Solamente dopo potevano sedere al posto di
pilotaggio come Primi Ufficiali. La navigazione astronomica era prevalentemente
utilizzata dalle navi dove la velocita’ era molto bassa ed il “punto nave”
era effettuato quasi sempre con il sole all’orizzonte e pertanto in condizioni
ottimali e poi c’era tutto il tempo per i lunghi e complessi calcoli. Tutto
questo non poteva avvenire in volo ed era necessario adottare tecniche
di rilevazione e di calcolo diverse e fornire manuali e tabelle per semplificare
il lavoro del navigatore (Sight Reduction Tables). Il navigatore era dietro
al sedile del comandante ed aveva a disposizione un “tavolino” sul quale
poteva “carteggiare” ma anche “pasteggiare” comodamente quando non era
impegnato! Di notte, quando iniziavano le “traversate” dell’oceano o dei
continenti privi di radioassistenze, iniziava il suo lavoro; per non disturbare
i piloti con la luce della lampada, indispensabile per “tracciare” sulle
carte di navigazione o per consultare i manuali, tirava la tenda oscurante
e si isolava dal resto della cabina. Iniziava con il cosidetto “precalcolo”,
cioe’ in base alla posizione “presunta” ed all’ora, individuava dai manuali
tre stelle di prima grandezza angolate di circa 120° e ne calcolava
“azimut ed altezza”. Successivamente sistemava uno sgabello in ferro in
cabina di pilotaggio, in prossimita’ di un foro di circa 4 cm sul soffitto
della fusoliera, toglieva il tappo e, tra il forte rumore dell’aria che
fuorusciva, inseriva (con cautela) il periscopio del sestante, facendo
attenzione che non si danneggiasse per effetto della depressione che lo
avrebbe risucchiato violentemente. All’orario “precalcolato” allineava
il sestante sull’azimut e sull’altezza presunte della prima stella. Individuata
la stella, la portava al centro del “collimatore” ed allo “stop” fornito
“cortesemente” dal motorista, la manteneva centrata compensando i movimenti
dell’aereo. Dopo 30 secondi rilevava i valori medi di azimut ed altezza,
passava alle altre due stelle, tornava al tavolino per elaborare i dati
riscontrati e calcolava il “punto” impiegando, se era bravo, circa 15 minuti.
A questo punto disponeva della posizione dell’aereo di 15 minuti prima
e calcolava quindi la prua per il rientro in rotta. Tanto lavoro si materializzava
in un bigliettino, con su riportata la prua per il “rientro in rotta” che
il navigatore appoggiava sulla piantana, tra il comandante ed il Primo
Ufficiale. Alcuni comandanti, veterani della guerra, guardavano con diffidenza
questo foglietto, lo appallottolavano e non modificavano la prua, fidandosi
solo della loro lunga esperienza. A volte avevano ragione! Un “buon navigatore”
riusciva a contenere l’errore intorno alla decina di miglia ma a volte
si poteva “uscire di rotta” anche di 30 miglia nautiche ma per quei tempi,
con il poco traffico sull’Atlantico, era comunque accettabile. Generalmente
sul Nord Atlantico si volava grossomodo da Est ad Ovest o viceversa ed
poteva tornare utile trovare velocemente la “latitudine” ed a tal fine
era utile misurare l’altezza della stella Polare con la quale si
trovava lo scostamento dalla rotta. Di giorno ed in particolare in Africa
si usava il sestante per effettuare le “rette di sole”, una tecnica di
navigazione meno precisa che veniva “integrata” con l’uso poco ortodosso
del radar meteorologico con il quale si “esplorava” il terreno in cerca
di riferimenti orografici. Il radar meteorologico non era adatto allo scopo
in quanto lavorava su frequenze previste per rilevare temporali e nubi,
ma se puntato verso il terreno dava un’immagine confusa ma a volte sufficiente
per distinguere i fiumi. In Africa si utilizzava per rilevare il letto
del Nilo e conseguentemente per aggiustare la rotta. Sulla tratta Atene
Mogadiscio, lasciato il Mediterraneo ed inoltrati nel continente africano,
si “perdeva” ogni radio assistenza e si procedeva solo con la bussola,
con qualche rilevazione con il sestante e controllando la sagoma del Nilo
con il radar meteorologico. Viste le condizioni in cui si operava, era
una regola diffusa quella di tenersi bene ad Est della rotta finche’ non
si giungeva sulla costa della Somalia, poi si virava a destra e si continuava
paralleli al mare finche’ si rilevavano i primi segnali del debole radiofaro
(beacon) di Mogadiscio che spesso era fuori uso. Essendo previste delle
tratte che prevedevano il sorvolo della zona artica, vennero istituiti
verso la fine degli anni ’60, dei corsi di “sopravvivenza” in aree prossime
al Polo. Il corso, molto interessante, insegnava le tecniche da adottare
in caso di “atterraggio d’emergenza” su zone coperte dal ghiaccio e come
sopravvivere in attesa dei soccorsi. Ci veniva insegnato come costruire
un igloo, rendere l’acqua potabile, “cacciare” l’orso (a tal fine a bordo,
fatto insolito, veniva imbarcato un fucile da caccia), pescare, ecc. In
queste aree vicine al Polo Nord le indicazioni della bussola non erano
piu’ attendibili e pertanto si utilizzava la navigazione a “griglia”, scollegando
la “flux-valve” che allineava i giroscopi sul Nord magnetico. Questo comportava
pertanto la precessione dei giroscopi che mantenevano l’allineamento
“spaziale” ed ecco perche’ si utilizzava la navigazione a “griglia”. Un
problema aerodinamico che non influenzava i precedenti velivoli ad elica,
sorto con il volo ad alta quota e conseguente fenomeno dovuto alla “compressibilita’
“ dell’aria a valori di Mach prossimi a “1”, e’ il cosidetto “stallo d’alta
quota” o “buffet on set”.
Su uno dei primi
voli del DC8, l’equipaggio era salito ad una quota troppo elevata e si
era trovato ad entrare in “stallo di bassa velocita’” e contemporaneamente
in “stallo di alta velocita’”. L’aereo inizio’ a scuotersi violentemente
e si tento’ inutilmente per molti minuti di capire la causa di quella condizione
spiacevole e potenzialmente pericolosa. Accadeva che, aumentando anche
di poco la velocita’, si usciva dallo stallo di “bassa velocita’” ma si
entrava in quello di “alta velocita’” e viceversa riducendo la velocita’.
Solo il calo di peso, dovuto al consumo di carburante, consenti’ la stabilizzazione
del volo! Sempre ad alta quota e per determinati “centraggi” (posizione
del baricentro) e per l’ala a freccia, si potevano verificare il fenomeno
del “dutch and roll”. Un evento che poteva essere innescato da un movimento
brusco sulla pedaliera (timone verticale) o da un’avaria motore. L’effetto
non era piacevole: l’aereo cominciava ad oscillare inclinandosi sempre
di piu’, fino a 60 gradi ed oltre e se non si interveniva prontamente
si poteva andare incontro a situazioni spiacevoli. La manovra consigliata
era di tenere il volantino inclinato e fermo da un lato, senza intervenire
sulla pedaliera. Durante i “passaggi macchina”, dopo il corso sulle caratteristiche
degli impianti, sulle prestazioni ed il simulatore, si effettuavano una
decina di “voli campo” (senza passeggeri) e in questa occasione si saliva
tra i 30.000 ed i 39.000 piedi per effettuare le prove di stallo, di dutch
and roll e discesa d’emergenza, prove poi abolite negli anni successivi,
con l’avvento dei piu’ sofisticati simulatori, in quanto ritenute potenzialmente
rischiose. Qualche anno prima, un Viscount di Compagnia si era schiantato
a terra a Ciampino durante un volo di addestramento (solo due piloti a
bordo) mentre era in avvicinamento con tutti e due i motori da un lato
spenti. Innavertitamente erano scesi sotto la “velocita’ minima di controllo”
con due motori in avaria e, sebbene fosse sopra la velocita’ di stallo,
il velivolo era divenuto incontrollabile. In uno dei primi voli da Primo
Ufficiale “titolare” (21 gennaio 1969) conobbi il comandante Pisciotta:
la tratta prevista era Roma, Montreal, Chicago. Giunti a Montreal dopo
9 ore e 10 minuti, decollammo per Chicago dove il tempo era pessimo a causa
di una tempesta di neve. Dopo un’attesa in “holding pattern” di un’ora,
sperando in un miglioramento, il comandante decise di dirottare su Indianapolis
dove pure li’ infuriava la tempesta. Atterrammo con il carburante che cominciava
a scarseggiare e li’ cominciai a capire che, tra i fenomeni meteorologici
particolarmente intensi, le difficolta’ con lo “slang” dei controllori
di volo, con l’intenso traffico IFR e VFR che interessava aeroporti ed
aerovie, volare negli Stati Uniti, non era una “passeggiata”. Poco dopo,
a conferma di quanto appena detto, mi trovai ad effettuare un volo Roma,
Boston ed anche questa volta il tempo era pessimo, neve con nubi basse
e vento e, oltre a questo, il sentiero di discesa dell’ILS (il Glide Path)
era fuori uso. Il controllore radar ci diede dei “vettori” per agganciare
il Localizer dell’ILS e poi ci fece passare con la torre. Il comandante
era molto teso e quando si tratto’ di agganciare il localizer lo supero’,
si innervosi’ e comincio’ ad oscillare con l’aereo andando in “overcontrol”.
Gli vidi il volto coperto di sudore e, con l’aereo che andava a destra
e sinistra del localizzatore e senza alcun riferimento sull’angolo di planata,
ero anch’io molto preoccupato e temevo il peggio. Alla fine uscimmo dalle
nubi molto bassi e con la neve che limitava molto la visibilita’. Mi accorsi
allora che avevo la gola completamente secca!