Un'avventura Africana



Alle 22,20 del 2 agosto 1986 il B747 I-DEMD “Cortina d’Ampezzo” staccò le sue diciotto ruote dalla pista 16 del “Leonardo da Vinci” e con prua a sud puntò verso Nairobi, tappa intermedia del volo AZ 816 per Johannesburg. L’equipaggio di condotta era composto dal comandante Carlo Manica, da due primi ufficiali – il sottoscritto e il collega Augusto Argiolas, e dai tecnici di volo Osvaldo Pula e Manlio Salemme. Responsabile della cabina era il CCP Marco Barsocchi. L’idea di lasciarmi alle spalle la canicola romana e di godermi il fresco di Jo’burg per qualche giorno mi allettava non poco. Il volo di andata fu senza storia: lungo il percorso incontrammo numerosi cumuli-nembi ma con piccole deviazioni di rotta il sorvolo dell’Africa non presentò alcuna difficoltà e il transito a Nairobi si svolse nei tempi previsti. La seconda tratta notturna fu ancora più tranquilla: i passeggeri dormicchiarono fino all’ora di colazione e dopo dieci ore e mezza di volo effettivo atterrammo all’aeroporto “Jan Smuts” di Johannesburg.
Le cinque giornate di sosta passarono veloci visitando parchi naturali e facendo i soliti acquisti di prammatica (Valparma e simili); la sera si cenò un paio di volte al ristorante italiano di Liliana de Curtis, figlia del grande Totò, dove gli equipaggi Alitalia erano sempre accolti calorosamente.
Nel primo pomeriggio dell’8 agosto lasciammo l’albergo per intraprendere il viaggio di ritorno AZ 815. In aeroporto le solite formalità: informazioni sul volo, presa in consegna dell’aereo, imbarco di circa 160 passeggeri quasi tutti con destinazione finale Roma poiché l’ingresso in Kenia non era consentito ai cittadini sudafricani a causa delle sanzioni internazionali contro l’apartheid.
Alle 17,50 la torre di Johannesburg ci autorizzò a rullare verso la pista in uso: l’aereo era lo stesso I-DEMD che ci aveva portato in Africa pochi giorni prima senza problemi. Lasciando il parcheggio avvertimmo un leggero urto ma il meccanico di terra dopo una rapida ispezione ci assicurò che tutto era OK. La corsa di decollo fu regolare e alla velocità di rotazione il Jumbo si involò leggero come una farfalla. Completate le manovre di retrazione del carrello e dei flap e impostata la velocità di salita il più era fatto: ora bisognava pensare alla navigazione. Una lucina ambra rimasta accesa sul pannello degli strumenti attirò subito la nostra attenzione: l’avviso luminoso ci informava che uno dei pannelli di copertura del vano carrello non si era chiuso completamente, ma quali fossero le cause e la portata dell’anomalia non era dato sapere. Ci chiedemmo se non fosse il caso di ritornare a Johannesburg, ma alla fine il comandante decise di proseguire perché un rientro fuori programma avrebbe comportato gravi ritardi; d’altra parte l’aereo si comportava perfettamente e ci venne il dubbio che potesse trattarsi di un falso allarme. L’ingegnere di servizio a Fiumicino, consultato via radio, ci consigliò di proseguire per Nairobi a velocità di crociera ridotta. La lucina ambra brillò maligna per tutto il volo.
Dopo circa tre ore e mezzo di volo Nairobi Avvicinamento ci autorizzò alla discesa verso l’aeroporto “Jomo Kenyatta”, situato 18 chilometri ad Est della città. All’estensione del carrello il forte rumore di aria smossa ci assicurò che le ruote stavano uscendo. Non ricordo se la luce ambra si spense, forse no, ma le luci verdi del carrello ci confermarono che 18 (diciotto?) ruote erano fuori e bloccate.
L’atterraggio fu dolce e al parcheggio ci aspettava il meccanico di terra. Appena si collegò in cuffia gli chiedemmo se i portelloni erano a posto e la sua risposta ci colse di sorpresa: “I portelloni sì, ma vi manca una ruota”. Improvvisamente ci trovammo ad affrontare due problemi giganteschi di ordine tecnico e umanitario. Infatti, mentre l’avaria al carrello ci impediva di ripartire, le autorità keniote non consentivano ai possessori di passaporto sudafricano di scendere dall’aereo.
Ci dedicammo subito al problema più urgente, la tutela dei passeggeri che rischiavano di finire in un limbo diplomatico, ma i primi contatti con le autorità locali non furono incoraggianti. Sordi a ogni appello i kenioti ribadivano che il Sud Africa era sottoposto a boicottaggio internazionale e che ai suoi cittadini era negato tout court l’ingresso nel Paese.
L’impasse non trovava soluzione. Mentre a Roma si intrecciavano le telefonate fra i vari uffici turni per organizzare un volo di soccorso, nell’aereo immobilizzato i cittadini sudafricani diventavano sempre più nervosi. In un clima di crescente tensione psicologica ben presto le toilettes si resero inservibili, le bevande cominciarono a scarseggiare e l’aria si fece irrespirabile. Gli assistenti di volo si prodigarono con grande disponibilità, garantendo la continuità del servizio per tutta la durata dell’emergenza. Nel frattempo il direttore delle operazioni di volo da Roma ci assicurò che un Airbus 300 era in via di approntamento per venire a ritirare i passeggeri: con lo stesso aereo sarebbe arrivata  una squadra di tecnici per riparare l’avaria con l’aiuto della Lufthansa che ci avrebbe fornito in loco un treno di ruote nuove. Occorreva un po’ di tempo per mettere insieme un equipaggio di riserva che fosse disposto ad operare con tempi di servizio superiori ai limiti d’impiego contrattuali ma non fu difficile trovare dei volontari.
Dopo otto ore di braccio di ferro le autorità aeroportuali ci ordinarono di lasciare libero il terminal, autorizzando finalmente lo sbarco dei passeggeri nell’area transiti che però era del tutto priva di punti di ristoro. Il Jumbo fu rimorchiato in un parcheggio lontano e passarono molte altre ore prima che da Roma giungesse l’A-300 a liberare dall’incubo più di un centinaio di persone stremate compreso un neonato di 40 giorni.
I tecnici ci chiarirono la dinamica dell’incidente. Lasciando l’area di parcheggio a Johannesburg avevamo urtato il bordo sporgente del tombino di una cisterna di carburante interrata; la botta aveva provocato una cricca al centro dell’asse posteriore del carrello principale di sinistra che all’insaputa di tutti era fallato per un difetto di fusione. Dopo il decollo l’asse si era piegato facendo poggiare la ruota sul pannello sottostante che per il peso non riusciva a completare la sequenza di chiusura: la spia ambra ci segnalava appunto questa anomalia. Quando in avvicinamento a Nairobi il carrello d’atterraggio venne comandato in estensione l’impatto con l’aria creò una sollecitazione abbastanza forte da causare il distacco della ruota.
Per sostituire il carrello in avaria ci volle una giornata, durante la quale tememmo di essere chiamati a rendere conto di chissà quale strage fra le baracche della periferia di Nairobi. In realtà – lo sapemmo qualche mese dopo – lo pneumatico extra large era precipitato nella savana a una trentina di chilometri dalla città, dove avrà spaventato un bel po’ di animali selvatici rimbalzando all’infinito.
Il giorno 10 agosto riportammo il B747 a Fiumicino in ferry-flight, unici ospiti a bordo i tecnici Alitalia che ci avevano tolto da una situazione a dir poco imbazzante. Per fortuna in cambusa erano avanzate alcune bottiglie di champagne.
 
 
 

Il carrello del B747 I-DEMD senza pneumatico.