L'acrobazia aerea collettiva in Italia ai suoi inizi
Roma, 23 giugno 1971
Chiedermi quale avvenimento rimane maggiormente impresso nella mia memoria è un quesito di rilevante imbarazzo, almeno per me, dopo i quarantadue anni di vita militare che ho avuto l’onore, ma anche il pesante onere, di finire come capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare. Rispondere ad una tale domanda è un po’ come tentare di schiudere con mano incerta quel simbolico archivio personale nel quale sono scritti i fatti e le date che hanno dato valore alla nostra vicenda umana: archivio ove sono racchiusi i ricordi e le pietre miliari del tempo passato. Ma questo scrigno dalle dimensioni indefinite è anche un labirinto in cui vivono, avvolti in uno sviluppo inestricabile, volti lontani, emozioni antiche, reminiscenze di giornate radiose e di situazioni amare: le sequenze frammentarie del nostro ieri. Eppure da quest’archivio, il cui contenuto è sempre vivo e palpitante anche se si sbiadisce nella memoria, sguscia ed avanza irresistibilmente, come un raggio di luce che d’improvviso spezza il buio e l’incertezza, il ricordo lontano ma caldo e presente di quella che considero con nostalgia une delle mie più complete e profonde esperienze nel campo umano ed in quello professionale.
All’inizio dell’anno 1936 fui nominato Capo della "Formazione Acrobatica del 4° Stormo C.T.". Questo si legge nel mio libretto personale: un’annotazione breve e concisa di appena due righe scritta a mano, con un inchiostro che oggi appare sbiadito sul foglio ingiallito. Tuttavia, dopo tanti anni, ricordando quel tempo, sento la stessa emozione che mi prese per un attimo quando, aperta la regolamentare busta, lessi incredulo l’ambita designazione. In quell’epoca era mio comandante di Stormo S.A.R. il Duca Amedeo d’Aosta: figura esemplare di capo e di soldato cui devo un’enorme gratitudine per quanto mi ha insegnato, che mi è sempre servito durante la mia lunga carriera militare nella buona e nell’avversa fortuna. Egli mi disse semplicemente che aveva “deciso” e mi diede le direttive con estrema precisione e sinteticità, com’era nel suo stile.
Il 4° Stormo doveva
riorganizzare la sua Pattuglia Acrobatica portandola all’altezza delle
tradizioni del Cavallino Rampante di Baracca. Dovevo quindi scegliere i
gregari, addestrarli con metodo e disciplina, contare sul fermo carattere
e sulla loro passione di ragazzi entusiasti per riuscire agevolmente.
Chi non ha avuto la
gran fortuna di essere stato in un Reparto da Caccia, forse non può
comprendermi; invece tutti i “cacciatori” sanno perfettamente che appartenere
ad una Pattuglia Acrobatica significa essere prescelti in una schiera di
piloti brillanti, per far parte di una selezione d’individui dei quali
sono garanzia del successo il forte carattere e le provate qualità
professionali. I miei cinque gregari di allora costituivano quindi il fior
fiore del 4° Stormo, essendo “manici” ricchi d’esperienza e di un coraggio
che al profano poteva sembrare sconfinare talvolta nella temerarietà,
mentre era sempre espressione di un rischio calcolato. Le loro eccezionali
qualità e l’affiatamento tra loro e con me rendevano più
facile il loro ed il mio inserimento nella pattuglia.
In quell’epoca, ed
ancora oggi per la verità. l’acrobata solista, quello che affascinava
gli spettatori e poteva permettersi il lusso di un’improvvisazione anche
sensazionale, affidandosi all’estro, ad uno stato d’animo particolarmente
euforico e spesso alla sua buona fortuna, per far parte di una formazione
acrobatica doveva modificare la propria struttura mentale, rinunciando
all’affermazione personale per quella dell’insieme al quale aspirava di
far parte, dimostrando così la più schietta volontà
di collaborazione, espressione di un nobile e profondo spirito di
Corpo e di Reparto. L’aspetto psicologico va rilevato perché è
manifestazione di generosità, d’altruismo, di disciplina e d’amore
per la propria famiglia per la quale sacrifici e fatiche non si misurano.
L’allora già
impressionante progresso tecnologico aveva accelerato l’evoluzione della
dottrina militare aeronautica con la conseguenza, tra l’altro, che il cacciatore
non poteva più considerare lo spazio come una sua arena personale,
ma doveva essere inserito in unità sempre più complesse delle
quali era semplicemente un gregario, un elemento.
Stava tramontando nello stesso tempo, o almeno trasformandosi, una certa mentalità, una caratteristica di colore fra il romantico e lo spavaldo, che negli anni dal 1920 al 1930 era molto diffusa un po’ ovunque nel mondo aviatorio. In quell’epoca, per esempio, il cacciatore era un personaggio, quasi una prima-donna, su cui si appuntava l’ammirazione generale: sulla sua uniforme impeccabile, talvolta fuori ordinanza, spiccavano l’aquila a sghimbescio, il primo bottone della giubba sempre sbottonato ed altre anomalie che lo facevano distinguere dagli altri piloti. Contemporaneamente era diminuito un particolare tipo d’infrazione alle norme di volo che, lo posso dire soltanto oggi, ho commesso io stesso quando ero un giovanissimo subalterno. Mi riferisco per esempio all’atterraggio abusivo e alla successiva sosta su un praticello ubicato nelle vicinanze di qualche locanda, nascosta da un filare di pioppi, ove in un caminetto monumentale rosolavano dei polli ed attorno al quale si parlava sempre di volo.
Ancora ricordo le puntate
e le acrobazie avventurose di qualche fidanzatino su una certa casetta
dalla quale, richiamata dal frastuono del velivolo in decisa picchiata,
rispondeva all’insolito vibrante saluto un’esile figura con commossa eccitazione.
Le cose inoltre erano cambiate lassù nel cielo, ove si svolgeva
il nostro lavoro quotidiano di cacciatori, perché i piloti non potevano
più abbandonarsi al loro estro individuale perché dovevano
disciplinatamente considerarsi parte di un’unità organica con la
quale lavorare e sincronizzare perfettamente le proprie manovre. Assunto
l’incarico, mi preoccupai subito di scegliere e di conoscere bene i miei
gregari. Il 4° Stormo era un reparto amalgamato, fresco, entusiasta,
in cui il cameratismo aveva una solidità a tutta prova. Conoscere
tuttavia un uomo, ammirarne il coraggio e l’abilità, parlare con
lui in squadriglia, al bar o alla mensa, apprezzare il suo umorismo, valutare
la sua intelligenza e il carattere è una cosa; conoscerlo a fondo
per renderlo idoneo a formare una famiglia nuova di zecca come quella di
una pattuglia acrobatica è impresa delicata e difficile. Per un
capo formazione significa soprattutto vivere continuamente con i suoi gregari,
intuire le loro aspirazioni e le loro ansie, amalgamarsi con loro, creare
un’atmosfera in cui si respira un qualcosa che è proprio soltanto
ai componenti il gruppo speciale.
Per circa tre anni,
pur vivendo nel 4° Stormo, costituimmo un insieme a sé
stante e non per niente dagli altri piloti eravamo chiamati “i magnifici
sei” con una punta di lieve ironia mista ad invidia rispettosa.
All’alba, prima che iniziasse l’attività operativa normale, alla quale peraltro partecipavamo anche noi, o nel tardo pomeriggio dopo la chiusura dei voli, decollavamo … in punta di piedi per discrezione ed iniziavamo quindi l’allenamento sopra la piana di Ronchi dei Legionari ove in un gran prato verde si trovava l’aeroporto custodito: una manica a vento, qualche manufatto e nient’altro. In uno scenario che non potrò mai dimenticare per la sua incomparabile bellezza, da un lato la corona solenne delle Alpi con le cime cosparse di candida neve e dall’altro, nello sfondo, l’Adriatico azzurrissimo ed avvolto nella coperta arancione porpora dei raggi solari, noi macinavamo loopings, tonneaux, rovesciamenti, manovre strane e nuove, ecc. provando figure e trasformazioni. L’intento era di perfezionare le manovre e di renderle quindi istintive per raggiungere l’armonia degli spostamenti e la sequenza delle figure presentate. A sera, dopo una doccia ristoratrice ed un pasto frugale, nella cameretta o in un angolino del circolo ormai semideserto facevo l’esame critico della giornata con i miei ragazzi, ricorrendo spesso a quello strano linguaggio usato sai piloti di ogni epoca o paese, consistente in rapidi e precisi gesti delle mani e della testa. Su un foglio di carta erano annotati con scrupolosità gli errori commessi e se ne analizzavano le cause studiando quindi con pazienza certosina il sistema più rapido per eliminarli. E’ opinione corrente ancora oggi che un volo acrobatico in pattuglia è il frutto di un estro saltuario e contingente di un gruppo di piloti che occasionalmente si trovino insieme e si mettano a dar spettacolo. L’acrobazia collettiva invece ha delle regole fisse che impongono l’assoluto rispetto dell’armonia nell’eseguire determinate figure acrobatiche e la necessità della massima precisione nelle trasformazioni, nelle manovre e nei ricongiungimenti, come se nel cielo i velivoli dovessero intessere un ricamo complicato ed elegante.
Nel 1936 noi impiegavamo il velivolo Fiat CR 32, un biplano vivace e robusto d’eccezionale maneggevolezza che era il normale velivolo bellico in linea presso tutti gli stormi da caccia. Esso ci accompagnò sempre con generosità pari a quella dei suoi piloti. Il nostro lavoro continuò quotidianamente per qualche settimana, di giorno sulla piana di Ronchi e la sera a tavolino, finché una mattina l’amato comandante dello stormo mi disse, quasi a bruciapelo, che di pomeriggio si sarebbe visto finalmente di quali panni vestivamo. In altre parole era giunto il giorno dell’esame che non poteva somigliare a quelle prove fino allora eseguite in famiglia, al reparto per intenderci, ove il programma non era svolto proprio alla perfezione, tutto finiva con un bicchiere di vino del comandante ed un giro di bicchierini alla mensa. Quello che ci attendeva era invece la presentazione ufficiale davanti ad una platea smaliziata e competente, costituita da tutto lo stormo i cui componenti, dal comandante, il Duca d’Aosta, al motorista e all’aviere di manovra erano provetti professionisti dall’occhio acuto che sarebbero rimasti per tutta la durata dell’esibizione con lo sguardo al cielo, pronti anche a sogghignare al nostro minimo errore ma trepidanti per la prova del gruppo che li rappresentava tutti.
Giunti sul campo, diedi uno sguardo ai quattro gregari che erano al loro posto, incastrati nella formazione a cuneo. Con un cenno della mano quindi, come un rispettabile direttore d’orchestra, diedi inizio all’esibizione: muso in giù, puntata e looping. Quindi tonneaux e “gran ruota”, fila indiana e trasformazioni. Ad un certo momento, prima di finire, giocai l’asso che avevo nella manica, il colpo segreto per il quale c’eravamo scrupolosamente preparati sul campo di Ronchi: la “bomba” con cinque CR 32 su un solo obiettivo. Fino allora la bomba era stata sempre eseguita su due obiettivi (tre velivolo sul primo e due sul secondo). Ci presentammo a cuneo di “cinque” picchiando su un segnale a terra prestabilito: una grande croce bianca. A pochi metri dal suolo tirai eseguendo un looping completo mentre i quattro gregari “rompevano” su quattro settori diversi e, dopo una virata stretta in cabrata ed un rovesciamento, s’incrociavano sul segnale insieme a me e contemporaneamente. Ripetemmo la manovra quattro volte, sempre puntuali sulla grande croce bianca finché uno scrosciare crescente d’applausi, quasi giunto fino a noi dal suolo, ci fece capire che eravamo stati promossi.
E’ necessario rilevare che quel pomeriggio estivo resta fra i miei ricordi più belli. Avevo 28 anni, un’età magnifica per la meravigliosa avventura che stavo vivendo. Dopo qualche giorno trascorso un po’ meno spartanamente del solito, giunse l’ordine inaspettato ed esaltante da parte del duca d’Aosta di ripetere la nostra esibizione a Venezia, assieme all’incarico ufficiale assegnato alla nostra pattuglia acrobatica di rappresentare l’Aeronautica Militare Italiana in tutte le manifestazioni aeree nazionali ed internazionali dell’anno e forse anche degli anni seguenti. Questa volta ci aspettava non soltanto un pubblico straniero composto dagli equipaggi di una formazione navale statunitense all’ancora nella laguna, ma tutta la cittadinanza della Serenissima che affollava Piazza San Marco ed il Lido. In quel luminoso pomeriggio del 4 settembre 1936, più che un impegno per noi, ormai scarichi d’ogni tensione, fu una gioia “lavorare” in uno scenario in cui l’azzurro, l’oro, il verde e i marmi di Venezia s’illanguidivano nel tramonto del sole. Felici per aver avuto un battesimo cosi significativo, qualche giorno dopo ripetevamo la manifestazione con pieno successo a Treviso in occasione di una giornata dedicata all’aviazione.
Non avevamo tempo di
riposare sui verdissimi allori perché dovevamo prepararci per le
gare internazionali dell’anno successivo (1937) ove non saremmo stati noi
soltanto ad esibirci ma avremmo trovato concorrenti agguerriti e disposti
al tutto per tutto pur di ben figurare. Il primo appuntamento era fissato
per il 20 giugno 1937 al raduno internazionale di Budapest al quale ci
saremmo presentati insieme alla pattuglia acrobatica del 6° Stormo.
Infatti avevo lanciato l’idea di rendere maggiormente significativa la
rappresentanza nazionale unendo alla nostra un’altra pattuglia acrobatica.
La cosa non era semplice, fu però concessa con molte difficoltà
l’autorizzazione a fare delle prove. Il risultato fu veramente positivo.
Ci preparammo coscienziosamente eseguendo un valido addestramento acrobatico
assieme al 6° Stormo. I dieci velivoli erano al mio comando: ancora
una volta il senso di generosità, d’altruismo e d’attaccamento all’Arma
che assieme avremmo dovuto rappresentare permise di ottenere in breve tempo
con cosciente disciplina un affiatamento perfetto.
Lavoravamo in dieci
alle prime figure acrobatiche per poi “rompere” e continuare il programma,
ogni pattuglia per conto proprio, intercalandoci continuamente. Alla fine,
dopo esserci riuniti, eseguivamo la “bomba” con il passaggio finale di
dieci CR 32 e il “volo folle”.
Anche questa volta trionfammo ma, come ammonisce il proverbio, non c’è rosa senza spine. La prima delusione ci aspettava inesorabile in Svizzera, proprio al Campionato del Mondo d’alta acrobazia. La gara – la più ambita per ogni pattuglia – era fissata per il 26 luglio 1937. Fortunatamente ci recammo a Zurigo con un certo anticipo, avendo così l’occasione di assistere alle prove dei francesi, degli inglesi, dei cecoslovacchi e dei tedeschi durante le quali tra l’altro ci accorgemmo con stupore – nessuno ci aveva informato tempestivamente – che la giuria internazionale per la prova delle trasformazioni fissava il punteggio in base al numero delle trasformazioni stesse e delle figure geometriche compiute nell’arco di 20 minuti. Fu un’autentica doccia fredda perché, mentre le altre formazioni avevano certamente seguito per molti mesi un programma preparato minuziosamente, noi dovevamo tentare in meno di una settimana, nella speranza di un onorevole piazzamento, una cosa assurda: inventare letteralmente un programma, studiarlo, provarlo e diventarne padroni per poterlo presentare degnamente al campionato del mondo. A questo punto mi decisi a compiere il classico colpo di testa del tipo: o la va o la spacca. Presentarci cioè alla gara con un’esibizione nella quale nei 20 minuti stabiliti dal regolamento la nostra formazione di dieci velivoli – per la prima volta nella storia dell’acrobazia collettiva – avrebbe eseguito ben 24 figure geometriche con altrettante trasformazioni anche acrobatiche. Le altre pattuglie al massimo erano composte di cinque velivoli e non effettuavano più di quindici figure.Quegli estenuanti giorni che ci separavano dal 26 luglio mi apparvero lentissimi per la tensione crescente che ormai faceva dei nostri nervi delle autentiche corde di violino e nello stesso tempo brevissimi perché le ore volavano inesorabilmente: i dubbi non si dileguavano e la stanchezza cominciava e farsi sentire. Eppure il giorno della gara ci comportammo meglio di quanto era ottimisticamente prevedibile perché ci classificammo al secondo posto, a qualche decimo di punto dalla formazione cecoslovacca risultata vincitrice del campionato. Questa piccola amarezza ci fu largamente compensata perché nella giornata conclusiva del raduno internazionale il comitato organizzatore ci aveva riservato il “clou” della manifestazione finale: la prova acrobatica collettiva. Fu la migliore esibizione della nostra formazione perché volevamo dimostrare alla giuria che noi eravamo i veri vincitori del campionato mondiale. La risposta ce la diede il pubblico internazionale che affollava le tribune disposte attorno al campo e si assiepava lungo le pendici al di là dell’aeroporto a perdita di vista. Dopo il volo “folle” e la “bomba” finale, atterrammo e mentre ci stavamo avviando rullando verso le tribune una marea di gente, superate le transenne, cominciò ad invadere il campo correndoci incontro. Fermammo i motori e scendemmo dalla carlinga, lievemente perplessi per l’improvviso e straripante entusiasmo del pubblico che voleva dimostrarci la sua approvazione. Fortunatamente numerosi automezzi si disposero tempestivamente fra noi e la folla. Personalmente, per merito dei bravissimi poliziotti svizzeri, riuscii in extremis a mettermi in salvo anche davanti agli occhi azzurri tremendamente delusi di una mia ammiratrice.
Con Zurigo diminuì la nostra attività per il 1937 sia per la necessità di un periodo di legittimo riposo dopo circa un anno di continua tensione, sia perché dovevamo prepararci per il 1939 che già si annunciava per noi carico di novità e di grandi responsabilità. Il 3 settembre effettuammo tuttavia una bella manifestazione a Gorizia in occasione di una visita d’importanti personalità all’aeroporto di Merna. Il 13, marzo 1938 a Gorizia fu presentato al mio comando un programma di volo acrobatico collettivo al quale partecipavano ben quattro formazioni di sette CR 32 ognuna. La nostra pattuglia acrobatica operava al centro, a sinistra quella rappresentativa del 1° Stormo guidata dal capitano Brambilla, a destra quella rappresentativa del 53° Stormo con il capitano Angoscia e “a fanalino” la pattuglia del 6° Stormo con il capitano Borzoni. Un programma acrobatico eseguito da 28 velivoli era veramente un “pezzo” eccezionale, anche per le aviazioni militari più famose, ma un looping di 21+7 CR 32 costituiva certamente qualcosa d’impensabile al punto da ritenere che la sua attuazione non avrebbe mai potuto realizzarsi se non nei sogni di un visionario. Eppure le nostre pattuglie acrobatiche riuscirono ad imparare così bene tutte le figure del vasto programma, che il 5 maggio 1938 a Roma-Furbara durante l’”operazione H” “lavorare” ci sembrò la cosa più facile del mondo. (descritto nei libretti di volo ovvero che aveva partecipato alla manifestazione a Furbara col 53° Stormo)
Ritengo che tale manifestazione segni ancora oggi il massimo che sia mai stato raggiunto nel volo acrobatico collettivo: una formazione di 28 velivoli volteggianti assieme nel cielo. In realtà con i mezzi di allora (fra l’altro non esisteva un collegamento radio fra i velivoli) si può dire che segnò il trionfo dell’abilità, della disciplina e del metodo dei piloti italiani. Tale metodo è ancora quello d’oggi nelle sue linee essenziali ed è espressione ragionata di una forte e profonda convinzione di raggiungere mete considerate impossibili quando il senso della propria capacità e l’intelligente osare impegnano la volontà e le azioni dei singoli e del complesso.
Ormai i ricordi della
mia carriera di capo formazioni acrobatiche volgono alla fine. Il 6 giugno
1938 infatti per l’ultima volta guidai la pattuglia del mio stormo e quella
del 6° Stormo in un meeting internazionale a Belgrado ove, al cospetto
di un pubblico entusiasta, ci classificammo al primo posto. Non potrò
mai dimenticare l’atterraggio quasi al buio di quella sera effettuato in
modo acrobatico, degno coronamento di una prestigiosa presentazione.
Fummo coperti di nutriti
e sinceri applausi ed ancora una volta vedemmo commossi salire sul pennone
per nostro merito la cara bandiera italiana, il premio più ambito
alla nostra fatica.
Dopo qualche settimana,
con un pizzico di malinconia, insieme ai miei cinque indimenticabili gregari,
compii una puntata sentimentale sulla piana di Ronchi dei Legionari ove,
nell’estate del 1936 erano cominciati a fiorire i nostri sogni. Più
tardi i “magnifici sei” si ritrovarono per l’ultima volta a bere in silenzio
il bicchierino del commiato. Seduti a quel tavolino intorno al quale per
tante sere un tempo, che già sembrava lontano, commentavamo i nostri
voli e le nostre prove e studiavamo il programma del giorno successivo.
La mia meravigliosa avventura era finita. Non ho più fatto parte
di una formazione acrobatica, ma l’esperienza vissuta e tutto quello che
ho imparato durante il tempo nel quale ho guidato i ragazzi del 4°
Stormo e degli altri stormi mi è stato molto utile, direi necessario,
soprattutto in guerra in situazioni meno accademiche e più pericolose.
Sono fermamente convinto che l’addestramento acrobatico e specialmente
quello collettivo sia la strada più pratica e più efficace
per diventare un buon pilota da caccia. Infatti questo deve essere sempre
caratterizzato da una piena capacità ad impiegare la macchina nei
modi più svariati per portarla nel minor tempo possibile in condizioni
tattiche vantaggiose rispetto all’avversario. Tale capacità si acquisisce
razionalmente ed economicamente nell’addestramento e nella preparazione
per poter far parte di formazioni acrobatiche. Mi si perdoni se insisto,
ma le pattuglie acrobatiche sono possibili solo se sono formate da piloti
dotati in sommo grado di carattere, volontà, disciplina, prontezza,
spirito di sacrificio ed estrema generosità. Voglio ancora rilevare
che la preparazione professionale dei piloti da caccia delle pattuglie
acrobatiche è tranquillità e garanzia per il loro impiego
in tempo di pace ed in tempo di guerra, durante cioè lo svolgimento
di tutta la missione affidata ai piloti stessi. Nei voli d’addestramento
acrobatico il pilota affina il colpo d’occhio, acquista un’istintività
nella manovra e una familiarità così completa con la sua
macchina che questa diviene parte di lui stesso. Il volo acrobatico collettivo
è quindi il risultato dell’addestramento metodico, severo e continuo
al combattimento aereo, è manifestazione di una disciplina ferrea
animata dallo slancio generoso controllato dalla grande perizia.
E’ errato pensare
che il volo acrobatico in formazione sia operativamente antieconomico,
in quanto impiega piloti addestrati soltanto al “volo acrobatico” e non
al “volo bellico”. Infatti il pilota della pattuglia acrobatica si deve
qualificare anche “pilota pronto al combattimento”. In pratica oggi ad
esempio la magnifica pattuglia acrobatica nazionale italiana è impegnata
da primavera ad autunno con le manifestazioni aeree, mentre nei mesi invernali
i suoi piloti si qualificano C.R. usando i velivoli sul particolare teatro
d’azione che è il poligono di tiro. Si può controllare sulla
“tabella” dei tiri in quante missioni essi acquisiscono la qualifica per
accorgersi che ci si trova di fronte a piloti super-capaci, a piloti della
massima efficienza, sui quali si può contare in qualsiasi momento
e qualsivoglia impiego. Infine, nel campo dell’affermazione delle conoscenze
aeronautiche infine, credo non esista nella fantasia degli uomini
un sistema di diffusione ispirato alla verità più efficace
ed entusiasmante di quello rappresentato un gruppo d’aeroplani che volteggiano
in cielo in armonia perfetta e non credo esista espressione che, al pari
di un programma acrobatico collettivo, possa indicare ed esprimere con
fedeltà assoluta e senza enfasi l’ardore, il coraggio, l’estro e
il temperamento di un popolo.
Oggi il volo acrobatico
collettivo in Italia è più che maggiorenne: ha quasi quarant’anni
di vita. Quarant’anni di ardimenti, di successi, di prestigio che hanno
dato una tradizione all’aviazione italiana. Una tradizione che va mantenuta,
che deve continuare perché è la grande forza che esprime
tutta la volontà, tutta la fierezza di noi italiani, maggiormente
necessaria in un momento come quello attuale che pare sia definito da un’affermazione
di una situazione inquietante di sovversione dei valori.